Siracusa nella morsa tra giornalismo e legalità: sicuri di quello che si è scritto non cedere mai alle forme di pressione.
Nella retorica giornalistica siracusana insiste da qualche tempo, insieme al rivoluzionario fenomeno universale dei Social Network, la perdita dell’espressione del linguaggio e dunque della funzione che il giornalismo dovrebbe avere quale garante della mansione di mediare tra la difficoltà del reale e l’opinione pubblica. Spesso però, invece di essere uno strumento di ragguaglio, diventa sempre di più utensile per amministrare interessi di parte, specie prima, durante e dopo un evento elettorale.
Ci sono due tipi di giornalismo: quello che tratta argomenti imparziali, scrivendo fatti e circostanze, senza conflitto, che può piacere o non piacere, e in qualche caso fanno arricciare il naso, ma non feriscono e non scatenano sentimenti di rappresaglia. C’è poi il giornalismo delle inchieste, che hanno l’obiettivo di far emergere una situazione critica, di denunciare fatti e misfatti, nell’interesse generale e non di parte. Anche qui ovviamente c’è chi fa questo mestiere bene e chi lo fa meno bene. Chi spinge sull’acceleratore del sentimentalismo e chi invece si limita a lasciar parlare i fatti; ma capita in questi giorni, nella nostra piccola realtà siracusana che dopo la pubblicazione di un articolo, la controparte metta in atto delle azioni per dissuadere il giornalista e la testata dal proseguire nel pubblicare per denunciare, minacciando azioni legali e richieste di risarcimento come una spada di Damocle. Ma chi fa le inchieste deve non solo trovare le notizie, verificarle più volte e fare attenzione al rigoroso rispetto dei limiti di pertinenza, misura e interesse generale nella costruzione del suo lavoro all’insegna della sola verità, dei fatti oggettivi. Succede però spesso che dopo la pubblicazione dell’articolo, la vicenda, raccontata con enfasi e notizie scandalose, diventa attraverso la richiesta di replica il giorno dopo tutt’altra cosa. Si spegne il fuoco del giorno prima per diventare una scrittura mielosa, quasi a chiedere scusa. Ma rimane l’amaro in bocca nel vedere l’annichilirsi di chi prima denunciava con enfasi e chiarezza, per poi chiedere quasi venia utilizzando i trucchi nascosti nella lingua italiana e tornado indietro in maniera davvero poco edificante per la professione di giornalista. È il limite alla legalità ma se si sicuri di quello che si è scritto, non si può cedere alle forme di pressione ricevute per bloccare il lavoro di un giornalista che si collocano nel perimetro della legalità. O come scrive Leonardo Sciascia: “A ciascuno il suo”.
Concetto Alota