Quel pericolo chiamato “raffinazione”: ancora un disastro ambientale aspettando lo scoppio finale
I disastri ambientali sono pagine nere della storia umana, troppo rapidamente e sempre rimosse dalla memoria collettiva. Un dibattito che si riaccende tristemente solo nel momento in cui accade una nuova emergenza.
Ieri 21 giugno un forte boato squarcia il silenzio a Point Breeze vicino a Philadelphia negli Stai Uniti (nella foto). Segue un gigantesco fungo di fumo nero. Pezzi metallici che volano lontano sulle case e sulle auto in transito nelle strade vicine la raffineria. Un fumo denso che chiude di fatto il vicino aeroporto. Nessuna vittima per fortuna. Tanti feriti lievi tra gli addetti ai lavori. Il fuoco aumenta mentre gli idrocarburi che bruciano sviluppano una puzza nauseabonda, insieme a gas, propano e butano che ammorbano l’aria irrespirabile con fiamme altissime che fanno paura.
Le autorità raccomandano la popolazione di fuggire prima possibile. La gente parla dell’inquinamento selvaggio in normale attività; “… non c’era bisogno dello scoppio per capire il grado di pericolosità e inquinamento che produce la raffineria. L’aria era puzzolente prima ma ora lo è ancor di più”. La raffineria in parte proprietà della Sunoco, già socio unico, in cui lavorano circa 1000 persone.
Nel 1984 la Union Carbide Corporate of India Limited produceva un pesticida a base di MIC, il Sevin. La tragedia la sera del 3 dicembre: un addetto alla manutenzione degli impianti dello stabilimento chimico di Bhopal compì un errore. Pulendo le tubazioni con l’acqua, dimenticò di isolare uno dei serbatoi di stoccaggio del letale isocianato di metile. L’acqua penetrò nel serbatoio e reagì con il composto chimico. La temperatura salì a oltre 200°C e favorì la gassificazione del MIC. Inoltre i sistemi di sicurezza erano stati disattivati per un problema di contenimento dei costi dovuti alla crisi dell’azienda in quegli anni.
Così il gas letale sfiatò da una valvola investendo gli abitanti di Bhopal mentre dormivano, nel cuore della notte. Nei dintorni della fabbrica era sorta una baraccopoli che fu investita in pieno, senza che vi fosse alcun piano di emergenza.
La nube tossica investì migliaia di famiglie ignare. I sintomi dell’avvelenamento erano immediati. I danni sin da subito gravissimi. Riguardavano soprattutto gli occhi ed il sistema respiratorio. Il contatto con il gas provocava lesioni oculari irreversibili, se non trattate in tempo, e gravi forme di edema polmonare con ematorace letale. L’ospedale di Bhopal era assolutamente inadeguato per affrontare una simile catastrofe, tanto che il numero delle vittime è oggi stimato tra le 8.000 e le 10.000. Oltre 50.000 furono i lesionati gravi tra cui vi furono in seguito molti decessi, mentre fino ad oggi oltre mezzo milione di contaminati soffre ancora dei postumi dell’avvelenamento.
L’impianto della Union Carbide fu immediatamente posto sotto sequestro e vigilato dalle autorità indiane, che non resero pubblica alcuna notizia riguardo l’incidente del 3 dicembre. Il capo della Union Carbide Warren Anderson, giunto immediatamente dagli Stati Uniti, fu posto ai domiciliari in India e espulso 24 ore dopo.
Oltre alla perdita di vite umane, si aggiunsero la moria degli animali da allevamento e l’inquinamento dei pesci, che pose il problema immediato della sopravvivenza dei superstiti. Il governo indiano rifiutò l’intervento tecnico della Union Carbide e declinò addirittura l’offerta da parte di quest’ultima di fondi umanitari. Il processo, inizialmente istruito negli Stati Uniti, fu trasferito in India dove la Union Carbide riuscì a far passare a titolo di risarcimento una compensazione di 470 milioni di dollari, il 15% di quanto richiesto dal governo di Delhi già costituitosi parte civile, più la costruzione di un ospedale specializzato per la cura dei contaminati. Riguardo all’amministratore delegato fu condannato in contumacia dalla Suprema Corte Indiana, ma mai estradato dagli Stati Uniti. La difesa sostenne infatti che le responsabilità della casa madre sulla Union Carbide India fossero inesistenti in quanto l’impianto fu progettato e gestito interamente da personale indiano senza interventi dagli Usa. Nel 2004 fu intentata una class-action dall’India, che tuttavia scagionò la UCC e il management del 1984.
Nel 2010 furono condannati alcuni dei responsabili indiani dello stabilimento, condannati tuttavia a pene minori e rilasciati su cauzione. Lo stabilimento di Bhopal è fermo dalla tragedia del 1984, non è ancora stato bonificato.
Le vittime dell’incidente sono cresciute negli anni; l’avvelenamento da isocianato di metile ha spesso portato allo sviluppo di fibromi polmonari, cancro, disturbi neuromotori e cataratte precoci. Molti furono i bambini nati in seguito al disastro, affetti da gravi malformazioni o da ritardi psichici. Le ferite di quella notte di dicembre a Bhopal sono ancora aperte.
I disastri ambientali petroliferi, del tipo che rischia il petrolchimico siracusano, fanno parte del percolo che la statistica mantiene costante. Tra i disastri ambientali a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo, una costante è quella della presenza dell’oro nero. La sete di petrolio è stata la causa prima di un numero elevato di disastri ambientali di conseguenze enormi. Approssimativi a causa delle scarse rilevazioni effettuate, parlano di 546 milioni di galloni di petrolio dispersi dall’inizio delle estrazioni, equivalenti a un disastro dell’entità dell’Exxon Valdez, la perdita di petrolio più grave nella storia americana fino al 2010 prima della Deepwater Horizon, ogni anno.
Un disastro senza fine, dove da un lato ladri e sabotatori di petrolio causano perdite continuamente e dall’altro le stesse compagnie petrolifere – per non incorrere in costi troppo alti – lavorano in condizioni di sicurezza inadeguate, perpetuando un circolo vizioso.
Ecco un breve elenco di disastri petroliferi hanno caratterizzato la nostra storia recente:
- 1978: il 16 Marzo 1978 la petroliera di bandiera liberiana Amoco Cadiz, un supertanker da 234.000 tonnellate, affittato dalla compagnia statunitense Amoco, filiale della Standard Oil, andò alla deriva al largo delle coste bretoni, proprio davanti al borgo di Portsall, rilasciando in mare circa 230.000 tonnellate di greggio.
- 1988: il 6 Luglio 1988, un’esplosione nella piattaforma petrolifera Piper Alphadella Occidental Petroleum Ltd. e della Texaco nel Mare del Nord, a circa 190 km dalle coste scozzesi, causò la morte di 167 lavoratori nella piattaforma e perdite di greggio non stimabili per entità.
- 1989: il 24 marzo 1989 la petroliera americana Exxon Valdez si incagliò in una scogliera dello stretto di Prince William, un’insenatura del golfo di Alaska, disperdendo in mare 40,9 milioni di litri di greggio. Probabilmente per il fatto di essere accaduto negli Stati Uniti, è il disastro petrolifero che ha ricevuto più attenzione da parte dei media fino a questa primavera, ma secondo alcuni esperti non è nemmeno nella top ten dei disastri petroliferi della storia. Eppure l’incidente della Exxon Valdez contaminò 1,300 miglia di coste in Alaska. Le conseguenze della perdita a quasi 30 anni di distanza sono ancora visibili, con petrolio presente in diversi tratti nonostante anni di operazioni di bonifica e alterazioni permanenti all’ecosistema.
- 1991: in occasione della primaGuerra del Golfo, l’esercito iracheno diede fuoco a qualcosa come 650 pozzi di petrolio in Kuwait per prevenire un’azione militare via terra della coalizione capitanata dagli americani, con circa un milione di tonnellate di greggio disperse nell’ambiente e pozzi in fiamme per diverse settimane.
- Last, but not least, il caso dellamarea nera del Golfo del Messico. Il 20 aprile 2010, per cause mai totalmente precisate, avvenne un’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizonal largo delle Louisiana. L’equivalente di oltre 3 milioni di barili di petrolio fuoriuscì dai pozzi in profondità nel Golfo del Messico. Una vicenda chiusa dal punto giudiziario con una maxi-condanna per BP.
All’opera di sensibilizzazione non sono però seguite azioni concrete ed anche le agenzie governative competenti in materia ambientale possono oggi ben poco. I finanziamenti sono insufficienti, la percezione comune è che questi territori enormi siano risorse infinite e intanto la situazione per l’ecosistema, la salute degli abitanti e degli animali continua a peggiorare.
Oggi sembra difficile trovare una luce in fondo al tunnel per salvaguardare il territorio. Sta iniziando una nuova epoca caratterizzata da disastri ambientali sempre più grandi e frequenti? Sembrerebbe di sì. Ormai non ci sono più dubbi. Se l’uomo continuerà a maltrattare l’ambiente modificando profondamente i suoi equilibri, i prossimi decenni saranno costellati di disastri ambientali e calamità naturali sempre più ingenti.
E non è tutto: stando alla recente relazione presentata dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale, le perdite globali connesse ai cambiamenti climatici e cataclismi (terremoti, tsunami, alluvioni, ondate di calore) potrebbero triplicare arrivando a fare danni per 185 miliardi di dollari entro il 2100.
Già nel 2011 l’ONU ha calcolato che le perdite economiche causate dai disastri ambientali hanno segnato il record negativo di 286 miliardi di euro, con 302 eventi classificati come ‘catastrofici’ che sono costati la vita ad oltre 29.500 persone in tutto il Mondo. E come se non bastasse, altre 260 milioni di persone hanno subito direttamente gli effetti di tali eventi.
Concetto Alota