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Petrolchimico siracusano: 35 anni fa lo scoppio dell’Icam

È Pippo Giaquinta, del Circolo l’anatroccolo di Priolo, a ricordare che 35 anni fa, il 19 maggio del 1985, scoppiava l’Icam, l’impianto che produce l’etilene.                                                                                                                            “Oggi alla luce della crisi sanitaria – scrive Giaquinta – per il corona virus , questa funesta ricorrenza sembra lontanissima, ma non lo è per molti cittadini, residenti nella zona industriale,  il 19 maggio è il 35° anniversario dello scoppio dell’impianto di produzione di Etilene dell’Icam ( Versalis)”.

“Un ricordo indelebile per molta gente in quanto, proprio in quella notte si prese coscienza collettivamente di un problema sino ad allora sottovalutato e cioè , intere  popolazioni di Augusta  Priolo e Melilli , soggette costantemente alla minaccia del rischio industriale”.

Intere popolazioni soggette, alla possibilità che da un momento all’altro nonostante i sistemi di sicurezza “molto elevati” si possa giungere a delle esplosioni di parti di impianti o impianti con serbatoi, con la creazione di nubi tossiche o quant’altro – ultima  vedi  l’esplosione di Porto Marghera in situazione simile a Priolo, di questi giorni”.

“Ricordiamo quell’evento anche, perché numerosi interventi per la mitigazione del rischio industriale previsti dalla legge del piano di risanamento ambientale, sono rimasti sulla carta: vedi la ferrovia che attraversa da nord a sud la zona industriale, vedi il parco serbatoi SG14 da smantellare   da tanti serbatoi di gas, troppo vicini al paese e tanto altro ancora, sono lì a testimoniare la Storia”.  

“Lo scorso anno un incendio di sterpaglie in piena estate ha ridotto in cenere ettari di campagne e macchia mediterranea limitrofe agli impianti con una incursione proprio dentro il parco serbatoi SG14 lasciato in quasi abbandono, sotto la stazione ferroviaria e che ancora oggi è lì in bella mostra – conclude Giaquinta – a dimostrare che le bonifiche tanto attese e la delocalizzazione dei serbatoi non si potrà  mai fare, senza uno scossone popolare e politico sulle aziende”.

L’incidente viene innescato alla base della colonna di distillazione denominata C2010, deetanatore; un forte boato squarcia il silenzio. Alle ore 22.30 del 19 maggio del 1985; si verificò una fuga di Gpl che, gas più pesante dell’aria, scese a livello del suolo e trovò un punto d’innesco incendiandosi. Le fiamme provocarono il riscaldamento delle tubazioni contenenti il gas in pressione: con lo scoppio delle stesse l’incendio si propagò nel vicino parco serbatoi di GPL e di etilene con il ben noto “effetto domino”.
Il fuoco dalla base della colonna colpì una tubazione, dal diametro di una seconda colonna di distillazione provocandone lo scoppio. Si sviluppò una lingua di fuoco a seguito della combustione di circa 80 tonnellate di etilene. Le fiamme raggiunsero un’altezza di circa 225 m oltrepassando la ciminiera alta circa 150 metri.
La rottura della tubazione provoca una palla di fuoco che colpì due serbatoi di stoccaggio di propilene, distanti circa 60 metri, provocandone lo scoppio. Un tronconi dei serbatoi a sua volta andò a urtare le tubazioni di passaggio dell’etilene, sviluppando una seconda palla di fuoco, prodotta da 50 tonnellate di gas, che raggiunse un’altezza di circa 250 metri.
Le indagini della Procura sulle cause del sinistro sono state attribuite alle vibrazioni prodotta nella valvola di scarico in candela del ribollitore della colonna di distillazione, provocando lo strappo dei tendenti delle flange di collegamento, causando la fuga del Gpl e l’innesco.

Ma i disastri ambientali sono pagine nere della storia umana, troppo rapidamente e sempre rimosse dalla memoria collettiva. Un dibattito che si riaccende tristemente solo nel momento in cui accade una nuova emergenza.

Nel 1984 la Union Carbide Corporate of India Limited produceva un pesticida a base di MIC, il Sevin. La tragedia la sera del 3 dicembre: un addetto alla manutenzione degli impianti dello stabilimento chimico di Bhopal compì un errore. Pulendo le tubazioni con l’acqua, dimenticò di isolare uno dei serbatoi di stoccaggio del letale isocianato di metile. L’acqua penetrò nel serbatoio e reagì con il composto chimico. La temperatura salì a oltre 200°C e favorì la gassificazione del MIC. Inoltre i sistemi di sicurezza erano stati disattivati per un problema di contenimento dei costi dovuti alla crisi dell’azienda in quegli anni.

Così il gas letale sfiatò da una valvola investendo gli abitanti di Bhopal mentre dormivano, nel cuore della notte. Nei dintorni della fabbrica era sorta una baraccopoli che fu investita in pieno, senza che vi fosse alcun piano di emergenza.

La nube tossica investì migliaia di famiglie ignare. I sintomi dell’avvelenamento erano immediati. I danni sin da subito gravissimi. Riguardavano soprattutto gli occhi ed il sistema respiratorio. Il contatto con il gas provocava lesioni oculari irreversibili, se non trattate in tempo, e gravi forme di edema polmonare con ematorace letale. L’ospedale di Bhopal era assolutamente inadeguato per affrontare una simile catastrofe, tanto che il numero delle vittime è oggi stimato tra le 8.000 e le 10.000. Oltre 50.000 furono i lesionati gravi tra cui vi furono in seguito molti decessi, mentre fino ad oggi oltre mezzo milione di contaminati soffre ancora dei postumi dell’avvelenamento.

L’impianto della Union Carbide fu immediatamente posto sotto sequestro e vigilato dalle autorità indiane, che non resero pubblica alcuna notizia riguardo l’incidente del 3 dicembre. Il capo della Union Carbide Warren Anderson, giunto immediatamente dagli Stati Uniti, fu posto ai domiciliari in India e espulso 24 ore dopo.

Oltre alla perdita di vite umane, si aggiunsero la moria degli animali da allevamento e l’inquinamento dei pesci, che pose il problema immediato della sopravvivenza dei superstiti. Il governo indiano rifiutò l’intervento tecnico della Union Carbide e declinò addirittura l’offerta da parte di quest’ultima di fondi umanitari. Il processo, inizialmente istruito negli Stati Uniti, fu trasferito in India dove la Union Carbide riuscì a far passare a titolo di risarcimento una compensazione di 470 milioni di dollari, il 15% di quanto richiesto dal governo di Delhi già costituitosi parte civile, più la costruzione di un ospedale specializzato per la cura dei contaminati. Riguardo all’amministratore delegato fu condannato in contumacia dalla Suprema Corte Indiana, ma mai estradato dagli Stati Uniti. La difesa sostenne infatti che le responsabilità della casa madre sulla Union Carbide India fossero inesistenti in quanto l’impianto fu progettato e gestito interamente da personale indiano senza interventi dagli Usa. Nel 2004 fu intentata una class-action dall’India, che tuttavia scagionò la UCC e il management del 1984.

Nel 2010 furono condannati alcuni dei responsabili indiani dello stabilimento, condannati tuttavia a pene minori e rilasciati su cauzione. Lo stabilimento di Bhopal è fermo dalla tragedia del 1984, non è ancora stato bonificato.

Le vittime dell’incidente sono cresciute negli anni; l’avvelenamento da isocianato di metile ha spesso portato allo sviluppo di fibromi polmonari, cancro, disturbi neuromotori e cataratte precoci. Molti furono i bambini nati in seguito al disastro, affetti da gravi malformazioni o da ritardi psichici. Le ferite di quella notte di dicembre a Bhopal sono ancora aperte.

I disastri ambientali petroliferi del tipo che rischia il petrolchimico siracusano, fanno parte del pericolo che la statistica mantiene costante. Tra i disastri ambientali a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo, una costante è quella della presenza dell’oro nero. La sete di petrolio è stata la causa prima di un numero elevato di disastri ambientali di conseguenze enormi. Approssimativi a causa delle scarse rilevazioni effettuate, parlano di 546 milioni di galloni di petrolio dispersi dall’inizio delle estrazioni, equivalenti a un disastro dell’entità dell’Exxon Valdez, la perdita di petrolio più grave nella storia americana fino al 2010 prima della Deepwater Horizon, ogni anno.

Un disastro senza fine, dove da un lato ladri e sabotatori di petrolio causano perdite continuamente e dall’altro le stesse compagnie petrolifere – per non incorrere in costi troppo alti – lavorano in condizioni di sicurezza inadeguate, perpetuando un circolo vizioso.

Ecco un breve elenco di disastri petroliferi hanno caratterizzato la nostra storia recente:

  • 1978: il 16 Marzo 1978 la petroliera di bandiera liberiana Amoco Cadiz, un supertanker da 234.000 tonnellate, affittato dalla compagnia statunitense Amoco, filiale della Standard Oil, andò alla deriva al largo delle coste bretoni, proprio davanti al borgo di Portsall, rilasciando in mare circa 230.000 tonnellate di greggio.
  • 1988: il 6 Luglio 1988, un’esplosione nella piattaforma petrolifera Piper Alphadella Occidental Petroleum Ltd. e della Texaco nel Mare del Nord, a circa 190 km dalle coste scozzesi, causò la morte di 167 lavoratori nella piattaforma e perdite di greggio non stimabili per entità.
  • 1989: il 24 marzo 1989 la petroliera americana Exxon Valdez si incagliò in una scogliera dello stretto di Prince William, un’insenatura del golfo di Alaska, disperdendo in mare 40,9 milioni di litri di greggio. Probabilmente per il fatto di essere accaduto negli Stati Uniti, è il disastro petrolifero che ha ricevuto più attenzione da parte dei media fino a questa primavera, ma secondo alcuni esperti non è nemmeno nella top ten dei disastri petroliferi della storia. Eppure l’incidente della Exxon Valdez contaminò 1,300 miglia di coste in Alaska. Le conseguenze della perdita a quasi 30 anni di distanza sono ancora visibili, con petrolio presente in diversi tratti nonostante anni di operazioni di bonifica e alterazioni permanenti all’ecosistema.
  • 1991: in occasione della primaGuerra del Golfo, l’esercito iracheno diede fuoco a qualcosa come 650 pozzi di petrolio in Kuwait per prevenire un’azione militare via terra della coalizione capitanata dagli americani, con circa un milione di tonnellate di greggio disperse nell’ambiente e pozzi in fiamme per diverse settimane.
  • Last, but not least, il caso dellamarea nera del Golfo del MessicoIl 20 aprile 2010, per cause mai totalmente precisate, avvenne un’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizonal largo delle Louisiana. L’equivalente di oltre 3 milioni di barili di petrolio fuoriuscì dai pozzi in profondità nel Golfo del Messico. Una vicenda chiusa dal punto giudiziario con una maxi-condanna per BP.

All’opera di sensibilizzazione non sono però seguite azioni concrete ed anche le agenzie governative competenti in materia ambientale possono oggi ben poco. 

I finanziamenti sono insufficienti, la percezione comune è che questi territori enormi siano risorse infinite e intanto la situazione per l’ecosistema, la salute degli abitanti e degli animali continua a peggiorare.

Oggi sembra difficile trovare una luce in fondo al tunnel per salvaguardare il territorio. Sta iniziando una nuova epoca caratterizzata da disastri ambientali sempre più grandi e frequenti? Sembrerebbe di sì. Ormai non ci sono più dubbi. Se l’uomo continuerà a maltrattare l’ambiente modificando profondamente i suoi equilibri, i prossimi decenni saranno costellati di disastri ambientali e calamità naturali sempre più ingenti.

E non è tutto: stando alla recente relazione presentata dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale, le perdite globali connesse ai cambiamenti climatici e cataclismi (terremoti, tsunami, alluvioni, ondate di calore) potrebbero triplicare arrivando a fare danni per 185 miliardi di dollari entro il 2100.

Già nel 2011 l’ONU ha calcolato che le perdite economiche causate dai disastri ambientali hanno segnato il record negativo di 286 miliardi di euro, con 302 eventi classificati come ‘catastrofici’ che sono costati la vita ad oltre 29.500 persone in tutto il Mondo. E come se non bastasse, altre 260 milioni di persone hanno subito direttamente gli effetti di tali eventi.

Concetto Alota

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