Siracusa: nel 1971 il rapimento del Conte Mariano Gutierrez Spadafora
È stato il primo e forse l’unico rapimento con allo sfondo il riscatto nella provincia di Siracusa. L’auto abbandonata di proprietà del marchese Mariano Gutierrez Spadafora è stata ritrovata, con la chiave d’avviamento appesa e con dentro le tasche il portafoglio e documenti, il pomeriggio di giovedì del 13 maggio 1971. Mariano Spadafora si era recato a trovare una sua amica a Noto. Lungo la strada di ritorno verso la sua tenuta a Marzamemi, lo scoppio di una gomma della sua auto lo costringe a fermare la sua Alfa Romeo 1750 nel percorso tra Noto e Pachino in aperta campagna. Spadafora si accorge solo dopo aver montato la ruota di scorta che il foro della gomma era stato provocato da chiodi gettati al momento buono dai banditi in agguato, nascosti dietro il muro. Aveva appena finito di stringere i bulloni della ruota di scorta, quando è stato colpito alla testa, tramortito e caricato nel bagagliaio di un’autovettura.
Per due giorni rimane in stato di choc in un casolare abbandonato insieme ad alcuni banditi mascherati che lo tengono con le mani e le gambe legate. Si rimetterà lentamente, ma e sempre sotto stretta sorveglianza e con gli occhi bendati tranne che per mangiare e da solo.
Con il passar del tempo prende sempre più corpo l’ipotesi che dietro la sparizione del Conte Mariano Gutierrez Spadafora, di cui non si ha più notizia dalla sera di giovedì, quando si è recato da una sua conoscente a Noto, ci sia effettivamente il sequestro del giovane patrizio a scopo di estorsione ad opera della mafia della Sicilia Occidentale, nel triangolo Palermo, Agrigento, Caltanissetta. Ipotesi messa in moto tra una notizia e una indiscrezione. Scartata questa ipotesi a seguito delle indagini svolti velocemente dalle Procure di Palermo e Caltanissetta, prende corpo che dietro la scomparsa del rampollo di uno dei più ricchi agrari e finanzieri siciliani ci fosse soltanto una scappatella; fatto che già nel passato era accaduto. Spadafora amava le corse automobilistiche, le belle donne e i viaggi a sorpresa. Per questo lo cercano ovunque. Stimatissimo e dal carattere allegro, generoso, attaccato alle tradizioni della Sicilia e al suo lavoro.
La premessa vuole che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è amico della famiglia Spadafora. La prima ipotesi di un rapimento ad opera della mafia della Sicilia occidentale, in accordo con la Procura di Siracusa, invia una squadra del Reparto dei carabinieri Anticrimine che alloggiano all’Hotel Aretusa in via Francesco Crispi a Siracusa. Squadra di investigatori comandata dall’allora Capitano Angelo Amara, fratello di Pippo Amara, politico conosciutissimo di Augusta. Molto amico di Graziano Verzotto.
Inizia una caccia ai rapitori a tutto spiano, con centinaia di poliziotti e carabinieri che si estende alle tre province orientali di Siracusa, Catania e Ragusa, ma praticamente, con l’intervento delle forze di polizia di tutta la Sicilia, specie le zone mafiose del palermitano e del nisseno, dove la famiglia Spadafora possiede vaste proprietà. L’attività agricola è solo una parte degli interessi dell’influente famiglia che ha le mani in pasta anche in grosse attività industriali, compresi i cointeressi nella Raffineria del Mediterraneo di Milazzo (Me), passata poi al Gruppo Eni.
Un’altra pista seguita dagli inquirenti in un primo momento e tenuta sottocchio, porta diritti alla vecchia mafia del feudo. Una delle aziende dei Spadafora Gutierrez è situata nel cuore del vallone di Caltanissetta, a Mussomeli, patria del boss Giuseppe Genco Russo, e a Valledolmo. Da qui, nel ’62, vennero esportati nella nuova azienda di Marzamemi (Pachino) quella appunto di cui si occupa Mariano. Ma, con il passar delle ore, prende corpo ilpossibile rapimento con allo sfondo il pagamento del riscatto. Infatti, le indiscrezioni confermano che i familiari di Mariano Spadafora erano riusciti a mettersi in contatto con i rapitori; iniziava così una gigantesca caccia all’uomo con le indagini coordinate dal sostituto procuratore della Procura di Siracusa, Dolcino Favi.
Il padre di Mariano Spadafora ha fatto diffondere un messaggio che appare chiaramente indirizzato ai rapitori del figlio, se ora esistono davvero. Nel missiva pubblicata dalla stampa si annunzia che polizia e carabinieri “hanno cessato le indagini” e manifesta la speranza che Mariano si faccia vivo da un momento all’altro; subito dopo presi i contatti con i banditi (da chi e come non è dato sapere), si formalizza la consegna del denaro. Ammette di aver ricevuto delle telefonate dai presunti rapitori del figlio con l’assicurazione che fosse in ottima salute e che alla richiesta del denaro ha risposto di essere disposto a pagare, nei limiti delle sue possibilità, e comunque solo dopo aver avuto una prova certa che si trattasse delle stesse persone che tengono prigioniero forzato il figlio Mariano. La classica paura in questi casi degli sciacalli.
Ma, come un fulmine a ciel sereno, entra nella scena di questo giallo tutto siracusano, il parroco di una delle chiese di Siracusa che si scopre aver trattato con i banditi. Su ordine del Pm Dolcino Favi, improvvisamente il prete viene fermato per accertamenti connessi al sequestro di Mariano Spadafora. Si era allora detto, e lo stesso prelato lo aveva confermato, che il parroco aveva materialmente trattato con un emissario della banda, consegnandogli alla fine una somma del riscatto (tutto o in parte) scambiandolo con la copia di un quotidiano del giorno precedente su cui Mariano Spadafora aveva apposto la sua firma, a testimonianza sia della propria incolumità durante il sequestro, durato 16 giorni, sia dal fatto che la trattativa non era condotta con i soliti “sciacalli”. Ma la famiglia Spadafora smentisce che il prete avesse fatto da intermediario per loro conto. A nome di chi e perché aveva agito il prete? L’accusa che gli viene contestata e che gli ha fatto scattare l’arresto, tende a fare di questa dubbia figura di sacerdote, oggettivamente, un complice dei rapitori.
Si parlò dapprima del pagamento di duecento milioni di lire per la sua liberazione; ma poi le indiscrezioni indicarono la cifra di cento milioni per il riscatto pagato per la liberazione di Mariano Spadafora, che viene rilasciato alle ore 4,35 all’alba del 29 maggio del 1971, su una strada alla periferia di Siracusa, dopo 48 ore in stato di choc, sempre bendato e sorvegliato. Da una macchina di passaggio si fa trasportare fino a casa del proprio legale l’avvocato Virgilio Arancio a Pachino. Di qui, dopo i preliminari di rito, il fratello Michele lo ha poi accompagnato a bordo di una Mercedes a Palermo, dove è stata organizzata una conferenza stampa.
A seguito di indagini mirati degli investigatori dei carabinieri, vengono effettuati otto fermi eseguiti dai militari dell’Arma con un’operazione notturna; tra i fermati ci sono gli esecutori materiali del sequestro. Nel corso della stessa operazione, l’attenzione di inquirenti e investigatori si appunta su un’autovettura Lancia Fulvia e su tre dei fermati. E questo sulla base delle indicazioni del colore, del numero della targa e il colore dell’automobile, forniti nello stesso giorno della liberazione da Mariano Spadafora, e su tre dei fermati trattenuti nella caserma dei carabinieri di Noto, si concentrano i sospetti; la fisionomia di due dei sospettati corrisponde perfettamente alla descrizione fornita da Mariano Spadafora; sono i due che lo tennero sotto sorveglianza in un casolare abbandonato nelle campagne del circondario.
Ma la somma pagata rimane un rebus; “abbiamo buone speranze di recuperare una parte della somma” dicono i carabinieri a caldo. Riguardo alla grossa cifra pagata per il riscatto di Spadafora; forse neppure gli inquirenti ne conoscono l’esatto ammontare, in quanto il padre di Mariano, che ha sborsato la somma, si sarebbe sempre rifiutato di ammettere di avere pagato ai rapitori per la liberazione del figlio Mariano. I responsabili del sequestro alla fine vengono tutti identificati arrestati, processati e condannati.
Concetto Alota