Inquinamento. Malati, morti, tumori, ambiente, industrie e disastri
a cura di Concetto Alota
Secondo le Nazioni Unite e la Banca Mondiale le perdite globali connesse ai cambiamenti climatici e cataclismi (terremoti, tsunami, alluvioni, ondate di calore) potrebbero triplicare arrivando a fare danni per 185 miliardi di dollari entro il 2100.
Già nel passato l’ONU ha calcolato che le perdite economiche causate dai disastri ambientali hanno segnato il record negativo di 286 miliardi di euro, con 302 eventi classificati come ‘catastrofici’ che sono costati la vita ad oltre 29.500 persone in tutto il Mondo. E come se non bastasse, altre 260 milioni di persone hanno subito direttamente gli effetti di tali eventi.
Nel nostro brodo locale, nella zona industrale siracusana, le lobby della chimica e della raffinazione hanno da sempre condotto il gioco delle parti. L’azione della politica e della magistratura è stata influenzata dal pericolo della perdita dei posti di lavoro; rischio che si ripresenta con tutta la sua drammaticità oggi più che mai. Agli inizi dell’attività del petrolchimico, gli industriali erano considerati mezzi dei e mezzi re. Andare a lavorare in uno stabilimento nella zona industriale di Siracusa era una vera chimera. Svanito il sogno dell’Eldorado che costò la vita a centinaia di operai, tecnici, feriti gravemente o morti nelle centinaia d’infortuni per scoppi o incendi, oltre a causa dei tumori. Dopo circa 25 anni iniziò il declino; un inferno sulla terra. Malformazioni, tumori, cancri, malattie sconosciute a ventaglio, morte e dolore. Le varie perizie ordinate dalla Procura di Siracusa negli anni, compresa l’ultima eseguita arrivata sui tavoli dei Pm nei giorni scorsi e ordinata nel 2015 dall’ex procuratore capo della Repubblica di Siracusa Francesco Poalo Giordano, confermano il nesso tra l’insorgenza dei tumori e la forte attività industriale nel petrolchimico siracusano che da circa 70anni inquina a più non posso. IL tutto sempre sovrapponibile ai profili epidemiologici del passato e in una realtà industriale che attesta come i tumori sono aumentati a dismisura, con la realtà dei fatti che la gente ci si ammala sempre di più. Nell’ultima perizia arrivata sui tavoli della Procura di Siracusa è stato analizzato con attenzione la mortalità: fra quelle potenzialmente legate all’inquinamento sono «in eccesso» i dati sul mesotelioma della pleura (per entrambi i sessi), sul tumore del polmone (tra le donne) e sulle malattie respiratorie acute (per gli uomini). “L’incidenza complessiva dei tumori maligni, esclusi quelli della pelle, risulta in eccesso rispetto alla popolazione delle regioni del Sud e Isole in entrambi i generi”, si legge. “In linea” con le medie nazionale e regionale l’incidenza oncologica della popolazione fra zero e 29 anni. Analoga tendenza sulle malformazioni congenite, tranne quelle del sistema nervoso. Fra gli “altri risultati di interesse” c’è l’”eccesso della pneumoconiosi”, compresi possibili casi di asbestosi, patologia determinata da ingenti esposizioni ad amianto”. E lo strano caso dei tumori alla mammella riscontrati negli uomini, “un evento raro”. E mentre in altre realtà industriali i responsabili sono colpiti da provvedimenti giudiziari, vedi l’Ilva di Taranto, nella zona industriale siracusana, terra di nessuno, tutto scorre liscio come se niente fosse, mentre i fatti confermano una strage lenta e silenziosa.
La musica è sempre la stessa. Puzza, aria irrespirabile, colonne di fumo nero che s’innalzano verso il cielo, il percolato delle discariche quando piove, scorre verso il mare (documentato più volte dagli attivisti del Comitato di base Bagali-Sabbuci) uliveti e limoneti trasformati in discariche di rifiuti e impianti di compostaggio puzzolenti, di cui quattro nati da poco nella contrada Santa Catrina e dintorni, nel silenzio generale, i fondali marini invasi da veleni pericolosi e ormai dimenticati. Benvenuti nel Petrolchimico siracusano, dove sono i cancri e i tumori a regolare la vita e la morte. I tanti bambini che sono nati malformati e i pesci deformati, sono stati dimenticati. Tra il 1980 e 1981 il numero dei bambini nati con varie malformazioni fu considerato inconsueto, con una percentualmente pari al doppio della media nazionale.
Il triangolo industriale siracusano è uno spicchio di terra in cui è diventato rischioso viverci. Lo scenario è ormai apocalittico. I residenti rassegnati. Nel gioco delle parti le industrie capitalizzano da sempre gli utili e socializzano le spese; in parte per le bonifiche, ma tutte quelle sanitarie, con malati cronici di tumori e cancri, che provocano morte e dolore nel silenzio generale, tra amianto e veleni sparsi in lungo e in largo, alla fine a pagare è sempre la comunità, i cittadini residenti, semplicemente colpevoli di essere nati qui, nell’inferno sulla terra creato dagli interessi di parte, dal profitto, dalla speculazione, dal connubio politica-industrie. Il pericolo diventa realtà tra accordi e interessi diffusi, ma insiste il rischio reale che alla fine rimarranno solo i ferri vecchi delle colonne di raffinazione, i capannoni, i veleni a mare, a terra e nella falda acquifera. Vedi ex Sincat e altri ancora.
Sono state tante le industrie che nel passato hanno sfruttato il mercato per poi sparire nel nulla lasciandosi dietro disperazione e dolore, senza pagare i costi delle spese per le bonifiche, oltre ai morti per cancro o in incidenti sul lavoro.
Un territorio in cui non sono più quantificabili le spese della messa in sicurezza della falda acquifera, del mare inquinato a più non posso, dei terreni avvelenati per la presenza delle discariche di cui solo 23 autorizzate e oltre cento quelle abusive sparsi in lungo e in largo, nelle vecchie cave di pietra e nei terreni circostanti.
La criticità principale è diventata l’inquinamento del mare e dei necessari dragaggi per eliminare quei veleni giacenti nei fondali e ormai dimenticati. Un fatto che le industrie vorrebbero soffocare, come se non fosse un fatto in cui sono coinvolti. In ogni caso, sarà impossibile bonificare il tutto; rimarranno veleni e inquinanti velenosi sparsi in lungo e in largo, come per il micidiale amianto sparso in lungo e in largo lungo il litorale che da Siracusa arriva ad Augusta.
La fonte delle notizie è L’ICRAM – l’Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e Tecnologica applicata al Mare, che nel 2008 confluì, armi e bagagli, nell’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale che ha eseguito all’inizio degli Anni Duemila la caratterizzazione con carotaggi e prelievi dei veleni che giacciono nei fondali della rada di Augusta, così come in altri porti, fiumi, laghi, insieme alla stima dei volumi di sedimenti contaminati, oltre che le analisi degli interventi possibili di bonifica e le operazioni di gestione dei dragaggi necessari.
La perimetrazione a mare nel Sito Priolo ha interessato circa 10mila ettari di specchio acqueo, con la scelta di campioni per l’esecuzione di analisi chimico fisiche e microbiologiche ai fini della caratterizzazione comparata, Inoltre, sono stati elaborati i valori d’intervento per sedimenti giacenti all’interno della rada di Augusta, con l’identificazione delle aere, dove sono necessarie urgenti misure d’intervento. Per quanto concerne la rada di Augusta, i dati derivanti dalla caratterizzazione ambientale, nelle due fasi elaborati dall’ICRAM, hanno evidenziato una grave situazione primaria di contaminazione dei sedimenti principalmente da mercurio e idrocarburi, e secondariamente da esaclorobenzene, piombo, rame, zinco, arsenico, diossine, furani, idrocarburi in genere e tanto altro ancora.
Analizzando i valori degli studi depositati a suo tempo presso il ministero dell’Ambiente, nel grafico di riferimento dell’ISPRA sopra riportato i sedimenti sono stati divisi con diversi codici identificativi. Quelli indicati con il colore Giallo, cioè, con concentrazioni per le quali è necessario l’avvio di un approfondimento d’indagine o l’avviso d’interventi urgenti di bonifica, sono stati poco più di 7 milioni di metri cubi.
I sedimenti indicati con il colore Rosso, quelli con concentrazioni tali da richiedere l’avvio immediato d’interventi di bonifica, sono poco più di 6 milioni e 200 mila metri cubi.
I sedimenti identificati con il colore Viola, con concentrazioni superiori ai valori pericolosi tali da richiedere l’avvio immediato della messa in sicurezza, sono poco di 700mila metri cubi.
Un totale generale di 13 milioni e 304mila metri cubi, dato necessariamente provvisorio, considerato che i dati si riferiscono a circa 15anni fa.
Nella somma dei diciotto milioni di metri cubi incriminati sono compresi i circa quattro milioni di metri cubi di sedimenti contaminati dai reflui fognari per la mancanza endemica del depuratore nel comune di Augusta, che scarica da sempre a mare; gli scoli e le perdite incidentali d’idrocarburi dalle petroliere e chemichiere in movimento nei pontili i metalli ferrosi provenienti dalle demolizioni delle navi nella rada. Le polveri metalliche e di zolfo presenti nelle banchine del porto commerciale. Dal percolato che arriva dalle varie discariche di rifiuti velenosi e urbani delle zone adiacenti che da anni vengono tutti sversati nella rada durante le piogge. Da sommare nel calcolo i sedimenti giacenti nel Seno del Priolo. Cioè, nel tratto di mare che va dalla diga foranea del porto di Augusta, all’Isola di Magnisi, dove fu scaricato il mercurio incriminato proveniente dall’impianto, Cloro Soda, in cui avveniva lo smaltimento illegale in mare e che fece scattare l’inchiesta della Procura di Siracusa denominata, Mare Rosso.
Insiste anche il calcolo eseguito, in vari progetti per la bonifica sia da parte delle Autorità preposte, studi di progettazione, così come da alcune società olandesi e italiane in associazione temporanea per i programmati lavori di dragaggio e per l’occasione con diversi progetti per il dragaggio e la bonifica dei sedimenti velenosi nella rada di Augusta e aree adiacenti. Ma nel 2009, tutto si fermò per l’intervento della magistratura amministrativa, dapprima del Tar e del Cga, ma poi anche da parte della Corte Europea, che sentenziarono, tutti all’unisono, che per quei veleni diventava più conveniente lasciarli lì, dove si trovano ancora oggi, anziché smuoverli.
Stiamo ancora oggi aspettando chi non arriverà mai e le tante verità propinate a ventaglio sulle bonifiche, ma nel frattempo abbiamo sommato tanti morti e un esercito di sofferenti a rischio tumori e tante false promesse da parte della politica locale, ma anche di un sospettoso e grave silenzio generale.
Dal settembre del 2016, dragare i fondali per eliminare i sedimenti contaminati nelle Aree Sin, come Augusta, è diventato davvero difficile. Per la complessità del dragaggio e dello smaltimento dei rifiuti i costi necessari sono lievitati vertiginosamente, tanto da diventare proibitivi oltre che complessi dal punto di vista tecnico.
Per quel che concerne i sedimenti marini, in particolare la gestione nelle aree portuali, alcuni progetti si rivelano all’avanguardia, ma troppo costosi con piani di dragaggio, trattamento e stoccaggio. In Italia nel recente passato si tendeva a riversare al largo il materiale dragato nei porti, spesso fortemente contaminato, com’è avvenuto per la rada di Augusta per circa 50anni con evidenti danni per gli ecosistemi marini; dal 2016, questo materiale, secondo i livelli di contaminazione, deve essere stoccato in discarica o in apposite casse di colmata realizzate nei porti stessi o in aree limitrofe.
Per la mancanza di norme che regolavano la materia, per decenni i colossi della chimica e della raffinazione hanno inquinato i corsi d’acqua, le falde acquifere, l’aria, il mare e la terra. Un’apocalisse che inizia la sua corsa ad Augusta nel lontano 1949 con l’avvento della Rasiom di Angelo Moratti, poi ceduta Esso e ora di proprietà degli algerini.
Ma lo spartiacque e la prova provata dell’avvelenamento (dopo l’entrata in vigore delle norme a difesa dell’ambiente) che da sempre ha inquinato l’ambiente, rimane l’inchiesta nata per l’errore di un tecnico che voleva pulire a suo modo con dell’acido la condotta in metallo da dove il mercurio veniva scaricato in mare che diventò di colore rosso a causa della ruggine che si scioglieva e per questo denominata “Mare Rosso”. Un’inchiesta scattata nel 2003, coordinata dal procuratore capo Roberto Campisi e affidata al sostituto Maurizio Musco, che fece epoca e storia, squarciando per la prima volta i segreti del petrolchimico. Le indagini furono portate a termine dalla Guardia di finanza di Siracusa al comando dell’allora colonello Giovanni Monterosso.
E tutto questo, come dirà a caldo nella conferenza stampa il procuratore capo all’epoca dei fatti, Roberto Campisi: “…con grande disprezzo della vita umana nello smaltimento dei rifiuti con tanta arroganza e un’inaccettabile logica”.
Il principale capo d’imputazione contestato agli accusati, era il delitto ambientale previsto dall’articolo 53 bis del Decreto Ronchi, poi articolo 260 del Codice ambientale, per aver costituito una “associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito d’ingenti quantità di rifiuti pericolosi contenenti mercurio”.
Dopo il sequestro giudiziario e un lungo fermo, l’impianto Cloro Soda ripartì con una sola delle tre linee per essere poi fermato fortunatamente e definitivamente nel novembre 2005: si accorsero dopo la strage che era troppo inquinante. Ancor più grave il fatto di aver tentato di farlo continuare nella sua corsa criminale e che non si può davvero sopportare. Inquinare, sapendo di avvelenare la gente, ogni cosa vivente.
La svolta dell’inchiesta quando nei documenti della Montedison, già proprietaria dell’impianto Cloro Soda, a leggere alcuni documenti segreti, ritrovati all’interno degli archivi della stessa società, dal 1958 al 1980 avrebbe scaricato in mare 500 tonnellate di mercurio (ma in realtà la quantità rimane indefinita). Per la Procura di Siracusa la scoperta bastò a far decadere buona parte delle accuse all’Enichem e i reati più gravi agli indagati nell’indagine denominata “Mare Rosso”; in particolare l’associazione per delinquere, l’avvelenamento doloso del mare e del pesce, le lesioni personali per le malformazioni neonatali. Derubricato il grave reato iniziale, restava solo il traffico illecito dei rifiuti. Il reato iniziale fu derubricato.
I vertici dell’Enichem sotto la pressione giudiziaria, nonostante fosse caduta l’accusa delle lesioni per le malformazioni, decisero di corrispondere volontariamente a 101 famiglie di bambini malformati e alle donne che avevano preferito abortire prima della nascita di un figlio destinato a nascere malformato, un rimborso variabile in base alla gravità della malformazione, tra i quindici mila e un milione di euro, per un totale di ben 11 milioni di euro più le spese legali. Un caso unico, dove una società gravemente accusata, poi prosciolta, decide di risarcire le vittime d’inquinamento senza alcuna richiesta da parte dei danneggiati.
La giustizia penale non fu la sola a occuparsi del triangolo petrolchimico Priolo, Melilli, Augusta. Già la legge 426/98, prima delle varie inchieste aveva dichiarato la rada di Augusta e il territorio del Petrolchimico siracusano “Sito d’interesse nazionale ai fini di bonifica” (Sin Priolo). Restava da capire, però, a chi spettava sborsare i soldi necessari per bonificare il territorio e il mare di tutta quell’enorme quantità di veleni. Malformazioni a parte, infatti, l’inquinamento rimane attivo e tutte le società che hanno operato nel petrolchimico siracusano vi hanno contribuito. Lo Stato voleva fargli pagare il conto salato ma trovò un’opposizione dura e basata sul principio: “Poiché non è chiaro quanto ogni società, ha inquinato, non si può stabilire in che modo spartire gli oneri della bonifica”.
L’allora Ministro per l’Ambiente, la siracusana Stefania Prestigiacomo, aveva trovato un’altra soluzione pur di fare le bonifiche, anche se una parte era a carico dello Stato. Siccome hanno inquinato tutti, paghino tutti i danni provocati, con la ripartizione delle somme, con una buona parte a carico del ministero dell’Ambiente e la rimanente somma suddivisa tra le industrie, mettendo a disposizione già nell’ottobre 2008 una cospicua somma di denaro pubblico. Ma la richiesta di pronunciamento della Corte di Giustizia europea è precedente alla decisione del Ministero di far pagare la spesa sia alle industrie, sia alla collettività, quindi non fu presa in considerazione.
E se da un lato le industrie hanno in buona parte riparato il danno a proprie spese delle bonifiche nei loro siti, c’è da chiedersi se mai le bonifiche nelle aree a terra inquinate o a mare si faranno, visto che insiste l’eterno dubbio di chi deve tirare fuori i soldi. E non è detto che si possano fare anche con i finanziamenti aperti da parte dell’Europa perché il danno è enorme e la normativa complessa. Il controverso sarebbe stato insinuato dalle stesse società che in origine avrebbero dovuto pagare per ripulire i fondali della Rada di Augusta. La risposta, con questi lustri di luna, è simile a quella scritta nelle cartelle dei condannati all’ergastolo alla voce “fine pena”: mai.
Scrivono i giudici amministrativi: “…sul fondo del mare c’è tanto di quel mercurio che se si prova a rimuoverlo, si rischia di rimetterlo in circolo e spargerlo ancora di più a causa delle correnti”, confermando già allora la notizia riportata dalla biologa Mara Nicotra che nel servizio di RaiTre riportò le risultanze delle ricerche eseguite dal Cnr con la conferma che insiste nel mare da queste parti tanto mercurio. È anche la motivazione tecnica giuridica dei giudici del Tar chiamati in causa. La soluzione, secondo questa teoria, sarebbe più deleteria del male stesso. La cosa molto interessante, che si creda, oppure no, è l’ipotesi del rimescolamento pericoloso dei sedimenti giacenti. Nella sentenza 1254 del 20 luglio 2007 si legge che la tipologia e le modalità degli interventi come imposti dal Ministero, sarebbero affidate a tecniche non efficienti, non efficaci e/o comunque irrealizzabili e come tali anche pericolosi per l’ambiente e per la salute umana.
I mille segreti sulla quantità di sedimenti velenosi in mare ci portano a dire che tutti hanno taciuto e che la rada di Augusta fu dragata una decina di volte dal Dopoguerra in poi. Negli anni il dragaggio fu ripetuto più volte nelle zone da utilizzare. Ma in occasione della crisi del Canale di Suez, per far entrare nel porto megarese le super petroliere, i fondali furono scavati quasi tutti a quota meno 22 metri, e poi a seguire per eliminare alcune secche, per i dragaggi a ridosso dei rispettivi pontili, oltre ad abbassare i fondali nei pressi dell’imboccatura di Scirocco, un canale centrale su richiesta dai Piloti del porto e dalla Capitaneria. E ancora, per la realizzazione della Darsena Servizi e altri ancora di minore portata.
Tutti i fanghi dragati, diventati sedimenti nei fondali fuori dalla rada di Augusta misti a idrocarburi e veleni d’ogni genere e natura che sommarono negli anni una montagna di fanghi contaminati. I dati approssimativi parlano di oltre 80 milioni di metri cubi nel totale che furono smaltiti negli Anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta, scaricati in grande quantità a tre miglia dall’imboccatura principale della rada di Augusta, oltre ai circa 18 milioni giacenti ancora nei fondali del porto megarese e nel seno del Priolo, per un totale stimato tra dentro e fuori la rada di circa 85 milioni di metri cubi. Sedimenti che finirono in gran parte nel vallone sottomarino chiamato “degli Inglesi” che insiste nell’asse parallelo della costa sud est della Sicilia Orientale. Questa è buona parte della Storia, ma i dragaggi, le analisi, la forma e la sostanza furono arricchiti dalla corruzione a ventaglio, con tanti interessi diffusi e tanti attori e registi. Un fiume di denaro della Cassa per il Mezzogiorno che scorreva pieno di soldi per circa mille miliardi delle vecchie lire in circa 50anni per i lavori della diga foranea, l’ampliamento dei servizi e i dragaggi nella rada, per la costruzione del porto commerciale e della Darsena Servizi e tanto altro ancora. Il tutto, sempre condito con l’inquinamento libero. Veleni di ogni tipo, residui pericolosissimi della lavorazione industriale. Tonnellate di questi rifiuti contaminate sono state sversate direttamente nel mare della rada di Augusta per decenni, come scrisse più volte il Pretore di ferro di Augusta negli Anni Settanta, Antonino Condorelli.
Questa è una terra martoriata da speculazioni, incuria, abbandono, degrado. Ancora oggi si registra una forte contrapposizione tra i soggetti che a vario titolo, e non sempre sostenibile, dicono la loro, e non mancano le perplessità e i nodi da sciogliere. Un diritto negato per le popolazioni delle zone di poter contare su una vita normale, e dove non sarà più possibile poter vivere senza morte e dolore, nel turismo sanitario collettivo tra controlli, chemioterapie, cure palliative e degenza ospedaliera.
MORTE E DOLORE
Sugli infortuni mortali nelle fabbriche italiane c’è stato da sempre un allarme mediatico forte e immediato, ma dopo qualche giorno, tutto è ritornato nel dimenticatoio, insieme al dolore dei parenti. Ma, al di là della questione legale, esiste un fatto morale. Infatti, industriali, sindacati, ispettori addetti al controllo e gli stessi lavoratori, insieme a pezzi istituzionali dello Stato, sono condizionati dal bisogno, dalla povertà, dove la necessità obbliga necessariamente la legge. Spesso si chiude un occhio, a volte tutte due, proprio per non rischiare la chiusura di un reparto o dell’intera fabbrica, del cantiere e via dicendo, con la conseguente lettera di licenziamento di centinaia di padri di famiglia. Ci si mette la coscienza a posto facendo finta di niente. È un dato di fatto che tutti da sempre hanno saputo e taciuto.
Siracusa e la sua zona industriale hanno vissuto quei momenti drammatici troppe volte e il bilancio è stato davvero apocalittico, drammatico, oltre a migliaia di malati cronici morti per aver contratto un cancro, un linfoma, una leucemia o una malattia al sistema respiratorio, e i tanti bambini nati malformati; l’incremento della mortalità causata dai tumori allo stomaco e a tutto il sistema gastrico, mieloma multiplo nelle donne, ha raggiunto livelli al rialzo con punte in più del 50% del dato nazionale.
Storia. Una strage silenziosa. Correva l’Anno 1949 quando Angelo Moratti impiantò la prima raffineria nel territorio del comune di Augusta, all’interno della Rada megarese: la Rasiom (ora Esso Augusta). Una delle più belle spiagge e una costa d’incanto per sempre distrutte. Al posto del mare azzurro le ciminiere, il catrame, la puzza e tanti morti e feriti, povera gente in cerca dell’Eldorado che non arrivò mai. Una storia finita male, che rileva un assurdo bilancio in mezzo secolo d’industria selvaggia con più di trecento morti e migliaia di feriti, escludendo dal conteggio le vittime d’infortuni nei vari cantieri edili, nelle officine, nell’agricoltura e tutto il resto che rimane fuori dal Petrolchimico; il fatto più grave che tutto ciò ci ha reso schiavi degli industriali.
Per un tozzo di mare amaro e unto di sangue abbiamo barattato la vita con il lavoro che ora, ironia della sorte, non c’è più. Ma quanto è costato alla collettività tutto ciò in termini di cure mediche, indennità di pensione d’invalidità e rendita di reversibilità vitalizia dello Stato per i morti e i feriti sui luoghi di lavoro? Valeva davvero la pena far tutto ciò? Forse era meglio che al posto di Moratti arrivasse un manager del turismo che, invece delle fabbriche della morte, avrebbe impiantato alberghi e siti turistici nella costa che una volta era la più bella e invidiata del Paese. Il destino dei vinti ha scelto proprio noi, poveri mortali, capitati nelle mani d’industriali e politicanti senza scrupoli e per giunta arroganti; ecco perché l’alba diventò il tramonto.
Una sequela di morti.
Era il 25 gennaio del 1959 quando da una colonna di raffinazione della Rasiom in fase di manutenzione si sprigiona un incendio dopo una forte esplosione. Il bilancio è di un operaio morto a causa delle ustioni riportate.
Nel 1961 alla Rasiom di Moratti due feriti e migliaia di tonnellate di petrolio bruciano con fiamme alte fino a cento metri.
Alla Sincat di Priolo, il 29 settembre del 1965, esplode un serbatoio di acido solforico. Il bilancio è grave: due operai morti.
Sempre alla Sincat di Priolo, il 31 agosto del 1967, alle ore tredici circa quaranta tonnellate di fertilizzanti prende fuoco. La nube tossica costringe la gente di Priolo a prepararsi per l’evacuazione tra il panico e lo sconforto generale.
Al pontile della raffineria Esso, nel porto di Augusta (nella foto in copertina), le navi cisterna “Messene” e “Punta A” prendono fuoco durante le operazioni di carico della benzina. Era il 4 agosto del 1971. Il bilancio è tragico, come diranno le autorità del tempo: sei morti e altrettanti feriti, tutti giovani. Il pontile è distrutto dall’incendio. I corpi essiccati dal calore di alcuni operai morti saranno estratti dalle lamiere contorte dai locali della nave dopo giorni. Lì si erano rifugiati nel tentativo di sfuggire al triste destino. Quasi cinquemila tonnellate di benzina vanno a fuoco.
Il 22 settembre del 1971, nell’impianto SG14, verso le ore 19,00, due serbatoi contenenti diecimila metri cubi di acetilene e due mila metri cubi di acrilonitrile s‘incendia. Il fuoco, per pura combinazione e fortunatamente, non attacca quattro serbatoi di cumene e di ammoniaca che si trovavano lì a pochi metri. Due squadre di vigili del fuoco rimangono intossicati. Gli abitanti di Priolo abbandonano le case in massa. L’incidente provoca la prima moria di pesci ufficiale.
La pesca è vietata in tutto il litorale.
Ancora alla raffineria Esso. Il 23 novembre del 1971, durante il lavoro di bonifica di alcuni serbatoi, gli operai della ditta Comedil rimangono intossicati dai vapori di benzina con piombo tetraelite. Due moriranno dopo poche ore.
Sincat. Impianto CR 11. Quattro operai restano feriti a causa di un incendio. Si scopre con l’occasione che nello stesso anno si erano verificati diversi incidenti mai denunciati anche nel reparto denominato CR ½.
Liquichimica Augusta (ora Sasol). Il 7 agosto del 1973, un giovane operaio muore dopo aver inalato accidentalmente vapori di acido solforico.
Rada di Augusta. Nel settembre del 1979, una vistosa moria di pesci si presenta agli occhi di marittimi e pescatori. Sulle cause nessuna denuncia è presentata.
Montedison Priolo. Alle ore 8,30 del mattino, esplosione nel reparto denominato AM 6: tre operai morti e due feriti.
Enichem Anic di Priolo. Alle ore 23,30 circa, l’impianto dell’ICAM, famoso per sicurezza e modernità, è distrutto da una serie di scoppi: una donna che passava nelle vicinanze sulla strada parallela all’impianto muore d’infarto e sei operai restano feriti. Un operaio morirà per le conseguenze dell’incidente dopo 12 mesi dal disastro.
Agrimont. Il 12 gennaio del 1988, una fuga di ammoniaca intossica nove ferrovieri.
Agrimont. Il 15 gennaio 1988 esplode una tubazione di azoto.
Enichem Anic di Priolo. Il 19 gennaio del 1988, un incendio nel reparto CR1-2: un operaio muore.
Selm Montedison. Il 21 febbraio del 1988. Avaria all’impianto. Parecchie tonnellate di olio combustibile finiscono in mare. Il terzo incidente simile in un mese.
Il 20 gennaio, durante un forte temporale un serbatoio della zona industriale prende fuoco inspiegabilmente. La notizia trapela dopo qualche tempo.
Nel porto di Augusta, una nave greca denominata “Marianna VII”, causa un incidente e perde buna parte del suo carico di greggio.
Selm. Il 14 novembre del 1988, durante un temporale un fulmine incendia tre serbatoi di greggio.
Pontile Agrimont. Il 28 gennaio del 1989, la nave egiziana “Ezz El Din Refaat” prende fuoco insieme al suo carico di fertilizzanti. Per fortuna il vento spinge la nube tossica verso il mare, ma gli abitanti della zona entrano in fibrillazione.
Il 4 marzo del 1989, la Lega per l’Ambiente di Siracusa denuncia pubblicamente un’abbondante perdita di liquami industriali da una delle condotte dell’ICAM.
Enichem Augusta. Il 14 agosto del 1989, il reparto OXO-Alcoli prende fuoco. La fabbrica minimizza l’accaduto, ma dopo qualche giorno, grazie alla stampa di opposizione, o libera che dir si voglia, si scopre che si è trattato di una cosa seria: l’incendio avrebbe potuto provocare danni incalcolabili nell’ambiente circostante, sconfessando, di fatto, le dichiarazioni ufficiali dell’azienda.
Selm-Montedison Priolo. Il reattore dell’impianto CR27 è fermato; c’è il fondato pericolo che possa scoppiare. Intervengono i vigili del fuoco che lo tengono sotto controllo per diversi giorni. Sulla data dell’incidente non si hanno notizie certe poiché non sono stati mai denunciati, così come si sospetta per altri centinaia, o forse migliaia d’incidenti, nemmeno dalla stampa locale.
Stessa cosa per l’ennesimo fuori servizio all’ICAM di Priolo. Una colonna di fumo nero si forma verso il cielo. Una quantità indefinita d’idrocarburi pesanti, tonnellate e tonnellate, aromatici polinucleari molto cancerogeni si disperdono nel cielo di Priolo e Melilli.
Alla Esso di Augusta, l’impianto F.C.C. entra in una pericolosa fase di avaria. È fermato per precauzione, ma prima dell’arresto inspiegabilmente si ferma in blocco da solo. Si parlò anche allora di scarico di bromo – catalizzatore – nell’atmosfera.
Praoil Priolo. Il 24 settembre del 1990, durante un travaso di acido solforico si rompe una manichetta corazzata. Tre operai investiti dalla furia dell’acido sono ricoverati al centro ustioni dell’ospedale di Catania. Il più grave è trasportato in Spagna nel centro grandi ustioni di Barcellona con un aereo privato messo a disposizione dalla Ferruzzi. È denunciata la mancanza di sicurezza e di strutture sanitarie in fabbrica e in loco.
Il 20 ottobre del 1990, un violento temporale durante la notte causa un blak-out nella zona industriale. L’interruzione di energia elettrica da parte dell’Enel provoca il blocco di numerosi impianti industriali: Esso, Enichem, Montedison e Isab. Tutti registrano un pericoloso fuori servizio. Per più di una settimana le torce con fiaccolate immetteranno nell’atmosfera un’enorme quantità d’inquinanti. Le colonne di fumo nero e denso si alzano sinistre nel cielo dei comuni di Priolo e Melilli. È più volte denunciato che nessuno in quei giorni informa la popolazione di ciò che avviene e sui comportamenti da tenere.
Protestano il 21 maggio del 1991 gli abitanti di Augusta.
Una persistente puzza nauseabonda arriva dalla zona industriale. Nessuna spiegazione.
L’inizio degli Anni 2000 è funestato con due incidenti mortali. Uno presso la Sasol, ex Condea, dove un giovane da poco assunto in cambio del padre, quest’ultimo dimissionario anzi tempo per sistemare il proprio figliolo (triste destino), è scaraventato a cento metri di distanza a causa dello scoppio del coperchio di un serbatoio cui stava lavorando. Muore all’istante dilaniato.
Presso la raffineria dell’Isab di Marina di Melilli un operaio muore perché colpito da uno scoppio seguito da un incendio di Gpl durante i lavori di manutenzione di un impianto.
Il 30 aprile del 2006 un incendio di vaste proporzioni scoppia all’Isab Erg impianti nord per la fuoriuscita d’idrocarburi. L’incendio di vaste proporzioni provoca il ferimento di alcuni vigili del fuoco. La Procura della Repubblica di Siracusa dispone il sequestro dell’area e apre un fascicolo d’indagine.
Il 13 0ttobre del 2008 un operaio è ferito per l’esplosione in un turbogas presso l”Isab Energy.
Il 5 novembre del 2008 una fuga di anidrite solforosa all’Erg provoca l’intossicazione di venti operai.
Il 7 novembre 2008 durante le operazioni di carico di una nave cisterna, una quantità indefinita di olio combustibile finisce in mare nel pontile 19 della raffineria Isab Erg.
Il 9 giugno del 2011 all’impianto TAS dell’Erg nord avviene un’esplosione, seguita dall’incendio di una vasca di deoleazione. Tre operai di una ditta esterna rimangono feriti in maniera non grave.
Il 20 dicembre del 2011 l’incendio di un serbatoio di oli pesanti presso l’Isab nord; una nuvola di fumo nero si alza nel cielo, ma senza conseguenze.
Il 22 maggio 2013 presso lo stabilimento Isab nord CR27 muore un operatore tecnico.
Il 26 febbraio 2014 presso l’Isab Sud, impianto 500 Power former, verso le ore 18,00 scoppia un compressore con un forte boato e fiamme altissime che allarmavano gli abitanti dei centri abitati viciniori. I vigili del fuoco domano l’incendio. La magistratura apre un’inchiesta.
Rimane tragico l’ultimo spavento collettivo, con l’annuncio di quasi evacuazione per gli abitanti di Priolo l’incendio al fascio tubero dell’Erg nord, lungo l’ex S.S.114. Per fortuna si finì senza vittime, ma mise in luce le carenze del sistema antincendio nella sua globalità, non idoneo a contrastare un incendio di grosse proporzioni o un eventuale quanto probabile effetto domino. Provate semplicemente a pensare a quei giorni di panico, disagio e paura. Mancano nell’elenco gli ultimi incidenti dopo il 2014.
Come si può ben vedere, si tratta di un bilancio tragico che già negli Anni Ottanta la Lega per l’Ambiente di Augusta definì catastrofico, pubblicando e denunciando, ad onor del vero e per la cronaca, con un documento inedito centinaia di morti e migliaia di feriti e con il forte dubbio che forse non tutti gli incidenti sono stati denunciati.
Impressionante lo scoppio dell’Icam, l’impianto che produce l’etilene, segna una triste giornata nella storia Petrochimico siracusano. Il rischio industriale è forte; gli interventi previsti dalla legge del piano di risanamento ambientale, sono rimasti sulla carta. La ferrovia attraversa da nord a sud la zona industriale. L’incidente viene innescato alla base della colonna di distillazione denominata C2010; un forte boato squarcia il silenzio. Alle ore 22.30 del 19 maggio del 1985; si verificò una fuga di Gpl, gas più pesante dell’aria, scese a livello del suolo e trovò un punto d’innesco incendiandosi. Le fiamme provocarono il riscaldamento delle tubazioni contenenti il gas in pressione: con lo scoppio delle stesse l’incendio si propagò nel vicino parco serbatoi di GPL e di etilene con il ben noto “effetto domino”.
Il fuoco dalla base della colonna colpì una tubazione, dal diametro di una seconda colonna di distillazione provocandone lo scoppio. Si sviluppò una lingua di fuoco a seguito della combustione di circa 80 tonnellate di etilene. Le fiamme raggiunsero un’altezza di circa 225 m oltrepassando la ciminiera alta circa 150 metri.
La rottura della tubazione provoca una palla di fuoco che colpì due serbatoi di stoccaggio di propilene, distanti circa 60 metri, provocandone lo scoppio. Un tronconi dei serbatoi a sua volta urtò le tubazioni di passaggio dell’etilene, sviluppando una seconda palla di fuoco, prodotta da 50 tonnellate di gas, che raggiunse un’altezza di circa 250 metri.
Le indagini della Procura sulle cause del sinistro sono state attribuite alle vibrazioni prodotta nella valvola di scarico in candela del ribollitore della colonna di distillazione, provocando lo strappo dei tendenti delle flange di collegamento, causando la fuga del Gpl e l’innesco.
Ma i disastri ambientali sono pagine nere della storia umana, troppo rapidamente e sempre rimosse dalla memoria collettiva. Un dibattito che si riaccende tristemente solo nel momento in cui accade una nuova emergenza.
Così nel mondo si manifesta il mostro chiamato inquinamento e interessi milionari diffusi.
Nel 1984 la Union Carbide Corporate of India Limited produceva un pesticida a base di MIC, il Sevin. La tragedia la sera del 3 dicembre: un addetto alla manutenzione degli impianti dello stabilimento chimico di Bhopal compì un errore. Pulendo le tubazioni con l’acqua, dimenticò di isolare uno dei serbatoi di stoccaggio del letale isocianato di metile. L’acqua penetrò nel serbatoio e reagì con il composto chimico. La temperatura salì a oltre 200°C e favorì la gassificazione del MIC. Inoltre i sistemi di sicurezza erano stati disattivati per un problema di contenimento dei costi dovuti alla crisi dell’azienda in quegli anni.
Così il gas letale sfiatò da una valvola investendo gli abitanti di Bhopal mentre dormivano, nel cuore della notte. Nei dintorni della fabbrica era sorta una baraccopoli che fu investita in pieno, senza che vi fosse alcun piano di emergenza.
La nube tossica investì migliaia di famiglie ignare. I sintomi dell’avvelenamento erano immediati. I danni sin da subito gravissimi. Riguardavano soprattutto gli occhi ed il sistema respiratorio. Il contatto con il gas provocava lesioni oculari irreversibili, se non trattate in tempo, e gravi forme di edema polmonare con emotorace letale. L’ospedale di Bhopal era assolutamente inadeguato per affrontare una simile catastrofe, tanto che il numero delle vittime è oggi stimato tra le 8.000 e le 10.000. Oltre 50.000 furono i lesionati gravi tra cui vi furono in seguito molti decessi, mentre fino ad oggi oltre mezzo milione di contaminati soffre ancora dei postumi dell’avvelenamento.
L’impianto della Union Carbide fu immediatamente posto sotto sequestro e vigilato dalle autorità indiane, che non resero pubblica alcuna notizia riguardo l’incidente del 3 dicembre. Il capo della Union Carbide Warren Anderson, giunto immediatamente dagli Stati Uniti, fu posto ai domiciliari in India e espulso 24 ore dopo.
Oltre alla perdita di vite umane, si aggiunsero la moria degli animali da allevamento e l’inquinamento dei pesci, che pose il problema immediato della sopravvivenza dei superstiti. Il governo indiano rifiutò l’intervento tecnico della Union Carbide e declinò addirittura l’offerta da parte di quest’ultima di fondi umanitari. Il processo, inizialmente istruito negli Stati Uniti, fu trasferito in India dove la Union Carbide riuscì a far passare a titolo di risarcimento una compensazione di 470 milioni di dollari, il 15% di quanto richiesto dal governo di Delhi già costituitosi parte civile, più la costruzione di un ospedale specializzato per la cura dei contaminati. Riguardo all’amministratore delegato fu condannato in contumacia dalla Suprema Corte Indiana, ma mai estradato dagli Stati Uniti. La difesa sostenne infatti che le responsabilità della casa madre sulla Union Carbide India fossero inesistenti in quanto l’impianto fu progettato e gestito interamente da personale indiano senza interventi dagli Usa. Nel 2004 fu intentata una class-action dall’India, che tuttavia scagionò la UCC e il management del 1984.
Nel 2010 furono condannati alcuni dei responsabili indiani dello stabilimento, condannati tuttavia a pene minori e rilasciati su cauzione. Lo stabilimento di Bhopal è fermo dalla tragedia del 1984, non è ancora stato bonificato.
Le vittime dell’incidente sono cresciute negli anni; l’avvelenamento da isocianato di metile ha spesso portato allo sviluppo di fibromi polmonari, cancro, disturbi neuromotori e cataratte precoci. Molti furono i bambini nati in seguito al disastro, affetti da gravi malformazioni o da ritardi psichici. Le ferite di quella notte di dicembre a Bhopal sono ancora aperte.
I disastri ambientali petroliferi del tipo che rischia il petrolchimico siracusano, fanno parte del pericolo che la statistica mantiene costante. Tra i disastri ambientali a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo, una costante è quella della presenza dell’oro nero. La sete di petrolio è stata la causa prima di un numero elevato di disastri ambientali di conseguenze enormi. Approssimativi a causa delle scarse rilevazioni effettuate, parlano di 546 milioni di galloni di petrolio dispersi dall’inizio delle estrazioni, equivalenti a un disastro dell’entità dell’Exxon Valdez, la perdita di petrolio più grave nella storia americana fino al 2010 prima della Deepwater Horizon, ogni anno.
Un disastro senza fine, dove da un lato ladri e sabotatori di petrolio causano perdite continuamente e dall’altro le stesse compagnie petrolifere – per non incorrere in costi troppo alti – lavorano in condizioni di sicurezza inadeguate, perpetuando un circolo vizioso.
Ecco un breve elenco di disastri petroliferi hanno caratterizzato la nostra storia recente:
• 1978: il 16 Marzo 1978 la petroliera di bandiera liberiana Amoco Cadiz, un supertanker da 234.000 tonnellate, affittato dalla compagnia statunitense Amoco, filiale della Standard Oil, andò alla deriva al largo delle coste bretoni, proprio davanti al borgo di Portsall, rilasciando in mare circa 230.000 tonnellate di greggio.
• 1988: il 6 Luglio 1988, un’esplosione nella piattaforma petrolifera Piper Alphadella Occidental Petroleum Ltd. e della Texaco nel Mare del Nord, a circa 190 km dalle coste scozzesi, causò la morte di 167 lavoratori nella piattaforma e perdite di greggio non stimabili per entità.
• 1989: il 24 marzo 1989 la petroliera americana Exxon Valdez si incagliò in una scogliera dello stretto di Prince William, un’insenatura del golfo di Alaska, disperdendo in mare 40,9 milioni di litri di greggio. Probabilmente per il fatto di essere accaduto negli Stati Uniti, è il disastro petrolifero che ha ricevuto più attenzione da parte dei media fino a questa primavera, ma secondo alcuni esperti non è nemmeno nella top ten dei disastri petroliferi della storia. Eppure l’incidente della Exxon Valdez contaminò 1,300 miglia di coste in Alaska. Le conseguenze della perdita a quasi 30 anni di distanza sono ancora visibili, con petrolio presente in diversi tratti nonostante anni di operazioni di bonifica e alterazioni permanenti all’ecosistema.
• 1991: in occasione della primaGuerra del Golfo, l’esercito iracheno diede fuoco a qualcosa come 650 pozzi di petrolio in Kuwait per prevenire un’azione militare via terra della coalizione capitanata dagli americani, con circa un milione di tonnellate di greggio disperse nell’ambiente e pozzi in fiamme per diverse settimane.
• Last, but not least, il caso dellamarea nera del Golfo del Messico. Il 20 aprile 2010, per cause mai totalmente precisate, avvenne un’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizonal largo delle Louisiana. L’equivalente di oltre 3 milioni di barili di petrolio fuoriuscì dai pozzi in profondità nel Golfo del Messico. Una vicenda chiusa dal punto giudiziario con una maxi-condanna per BP.
All’opera di sensibilizzazione non sono però seguite azioni concrete ed anche le agenzie governative competenti in materia ambientale possono oggi ben poco.
I finanziamenti sono insufficienti, la percezione comune è che questi territori enormi siano risorse infinite e intanto la situazione per l’ecosistema, la salute degli abitanti e degli animali continua a peggiorare.
Oggi sembra difficile trovare la luce in fondo al tunnel per salvaguardare il territorio. Sta iniziando una nuova epoca caratterizzata da disastri ambientali sempre più grandi e frequenti? Sembrerebbe di sì. Ormai non ci sono più dubbi: se l’uomo continuerà a maltrattare l’ambiente modificando profondamente i suoi equilibri, i prossimi decenni saranno costellati sempre di più da disastri ambientali e calamità naturali sempre più ingenti e dannosi per la vita sulla terra.