Comune di Licata. Maria Grazia Brandara si fa “3.0”, per contrastare le fake news e il Cyber Stalking.
Il commissario straordinario del comune di Licata Mariagrazia Brandara, starebbe pensando in queste ore alla nomina di un esperto in cyber security. Nello specifico un consulente di analisi forensi, con una forte competenza, per formazione ed esperienze trasversali anche in ambito socio-psicologico, in social engineering. “ La pioggia di minacce che ricevo da tempo, e da tempo formalmente denunciate all’ Autorità Giudiziaria, percorre anche la lunga autostrada telematica. Qualcuno ( od un “gruppo di persone”) si avvale da tempo delle moderne tecnologie per minare la serenità del mio costante operare lungo le ispide vie della legalità. Inondando di lettere, articoli e fake news. Una gogna mediatica, che “qualcuno“ ( od un “gruppo di persone”) veicolava e che, ha ripreso a veicolare, a tantissimi soggetti. Articoli lesivi della mia immagine ad arte creati” Il professionista in questione sarebbe un docente di informatica, sistemi e reti che da anni opera a supporto di procure, politici e FF.OO, nonché di penalisti e civilisti che godono di grande considerazioni e che con lo stesso hanno collaborato per reati riguardanti crimini informatici.
Vi è oramai una politica del Cyberspazio, intesa come piattaforma digitale, per raggiungere obiettivi politici nella vita reale. Il problema è, conclude Brandara, che vi sono politici ed amministratori che, come me, ne fanno un buon uso per stare vicino alla propria gente, ai loro bisogni, al paese tutto; c’è chi, invece, ha deciso di usare questo spazio, inclusi i servizi degli over the top’ come Facebook, Twitter e Google, per creare tensioni, paure, precarietà, insicurezza, panico, e destabilizzare una comunità come quella licatese, già fragile e scalfita da tante ferite. Non posso permettere che un utilizzo errato, distorto e malvagio della “Politica 3.0” condizioni il mio operato, la mia attenta presenza in e per questa città che sento la mia.”
Un classico ormai, i fake new, un fatto inventato di sana pianta che diventa virale e a cui finiscono con il credere in milioni di persone. Anche in Italia accadono cose del genere come confermano i dati del 14° Rapporto Censis sulla comunicazione “I media e il nuovo immaginario collettivo; c’è la necessità di un giro di vite contro le “bufale” che spesso sono diffuse attraverso profili e pagine non attribuibili a persone reali”. Quasi negli stessi giorni Google ha invece annunciato la creazione di un’etichetta di verifica per il suo motore di ricerca e per Google News. In pratica verranno mostrate informazioni sulle dichiarazioni contenute nelle notizie: si dirà da chi sono riportate e se una fonte ha verificato quella particolare dichiarazione. Perché è chiaro che nell’epoca delle “post-verità” bisogna correre ai ripari e cercare di capire di quali informazioni ci si possa davvero dare.
Una sfida che riguarda anche e soprattutto i media tradizionali. Secondo l’esperto Stephan Russ-Mohl, Direttore dell’Osservatorio europeo di giornalismo, che sul tema della disinformazione pubblicherà un saggio nei prossimi mesi, tra fake news e post-truth. Tutto nasce dal fatto che le fonti di comunicazione oggi sono diverse e molteplici rispetto al passato. I telegiornali sono usati abitualmente per informarsi dal 60,6% degli italiani, ma solo dal 53,9% dei giovani.
“Colpisce il fatto che la seconda fonte d’informazione è Facebook con il 35%, ma nel caso degli under 30 il social network sale al 48,8%” – spiega Massimiliano Valerii – direttore Generale del Censis. Tra i mezzi utilizzati per informarsi dai giovani seguono i motori di ricerca su internet come Google (25,7%) e YouTube (20,7%). A più della metà degli utenti di internet è capitato di dare credito a notizie false circolate in rete: è successo spesso al 7,4%, qualche volta al 45,3%, per un totale pari al 52,7%. La percentuale scende di poco, rimanendo comunque al di sopra della metà, tra le persone più istruite (51,9%), ma sale fino al 58,8% tra i giovani under 30, che dichiarano di aver creduto spesso alle bufale in rete nel 12,3% dei casi”.
C.A.