Il giorno del ricordo
I massacri delle Foibe: una tra le pagine più cruente, sottaciute ed irrisolte nel panorama mnemonico-culturale italiano
I massacri delle Foibe rappresentano una tra le pagine più cruente, sottaciute ed irrisolte nel panorama mnemonico-culturale italiano. Nel biennio che intercorse tra il 1943 e il 1945 le regioni geografiche della Venezia Giulia, del Quarnaro, dell’Istria e della Dalmazia furono trasformate nel palcoscenico dell’orrore, della persecuzione e della pulizia etnica per mano del regime comunista instauratosi nella Repubblica Federativa Popolare (poi Socialista Federale, a partire dal 1963) di Jugoslavia capitanata dal dittatore Josip Broz Tito.
Dopo l’Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije (AVNOJ, trad: Consiglio antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia) costituitosi durante la Seconda Guerra Mondiale, la liberazione di quei territori assoggettati alla precedente occupazione nazifascista e il periodo di traghettamento dalla monarchia alla forma repubblicana, il neo Governo iniziò ad imporre (nel variegato tessuto storico-sociale di quei luoghi) un’immorale sfilza di restrizioni, di limitazioni della libertà di espressione e di comportamenti lesivi della sfera umana che finirono col sfociare nella violenza più infausta.
Tra le tremila e le undicimila anime – numeri ancora oggi non semplici da stimare – vennero trucidate in vario modo nelle rispettive città di appartenenza, fino agli internamenti nei campi di concentramento (che mieterono il maggior numero di vittime) ed agli eccidi mediante il cd. “infoibare” perpetuati dai partigiani jugoslavi nonché dall’Odeljenje za Zaštitu NAroda (OZNA, trad: Dipartimento per la Sicurezza del Popolo). Fascisti ed oppositori politici ma soprattutto antifascisti, anticomunisti, funzionari e dipendenti pubblici, insegnanti, impiegati bancari, sacerdoti e moltissimi altri furono uccisi “per l’unica colpa d’esser italiani” (i quali venivano solitamente percepiti come la “classe dominante” contro cui lottare), ergo dei potenziali futuri oppositori dello Stato socialista che veniva affermandosi dopo le violenze non meno esecrabili, di riflesso, che a sua volta la cd. “italianizzazione fascista” (verificatasi dopo il “biennio rosso” che investì l’Europa nel 1919-1920) aveva progressivamente generato in quei territori fino a qualche anno addietro nei riguardi delle popolazioni slave oltre che, infine, a seguito di una lunga e complessa rivalsa nazionalista plurisecolare su più fronti – non priva di sentimenti/operazioni irredentisti/e, l’Italia ad esempio suole ricordare la cd. “Impresa di Fiume” nel periodo interbellico (poi trasformatasi nella “vittoria mutilata” a seguito del Trattato di Rapallo firmato nel 1920) per mano dello scrittore, poeta e militare Gabriele D’Annunzio soprannominato “Il Vate” – in quel tumultuoso versante dell’Adriatico che vide peraltro risolversi definitivamente la “questione triestina” e il “Territorio Libero di Trieste” (TLT) soltanto con il Memorandum di Londra del 1954. Tra il 1945 e il 1956, infine, circa trecentocinquantamila civili dovettero lasciare le proprie dimore nel lungo esodo dalmata-giuliano (i cui umili oggetti quotidiani sono tutt’oggi parzialmente ammucchiati ed ospitati nel celebre “Magazzino 18” di Trieste, convertito in museo). Quando il secondo conflitto mondiale giunse al termine, ecco che iniziò concretamente lo scontro in quelle terre contese a discapito di migliaia di profughi italiani che subirono non soltanto la perdita dei propri cari, delle proprie case e delle proprie vite ma che dovettero persino sopportare il rifiuto di una patria matrigna troppo impegnata nel rimuovere le colpe di una guerra perduta e nel ricostruire un Paese dilaniato da Nord a Sud.
Rimangono numerose le incognite per gli storici così come le frequenti “tesi militanti” (dal pluri-negazionismo/riduzionismo di parte alle analisi sull’epurazione preventiva e sulle responsabilità del Comunismo nonché del Fascismo, due regimi totalitaristici sconfitti dal corso degli eventi proprio come il Nazismo e che, con i loro irragionevoli ideali e le loro rese dei conti, hanno praticamente distrutto irreversibilmente la coesistenza multietnica in quei territori), le enfatizzazioni politico-partitiche a carattere strumentale difficili da debellare e i silenzi che, per mille esigenze (di politica interna e di natura diplomatica), hanno avvolto non soltanto gli Stati coinvolti bensì l’Europa e il mondo nel suo intero.
Una cosa è certa: la violenza e la follia brutale non hanno nomi, non hanno etichette. Soltanto l’odore e il sapore del sangue delle loro vittime, in un circolo vizioso senza fine ove i violentati ed i violentatori – a seconda delle circostanze – arrivano persino a scambiarsi i ruoli. Una matassa di odi, di rivalse e di leggende metropolitane costruite ad hoc che rendono tutt’oggi assai complicata l’accettazione sempre unanime e pacifica delle singole colpe ricadenti nei rispettivi attori in campo.
Ma è per questo che occorre riscoprire/difendere ancor di più la memoria e la verità analitica dei fatti nel Giorno del ricordo istituito nel nostro Paese a partire dal 2004, nella data in cui vennero firmati i Trattati di Parigi del 1947.
Emanuele Grillo