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La Società in cui viviamo. Quei rapporti ravvicinati tra uomini delle istituzioni e la mafia

Nella Sicilia dei Gattopardi, il problema non sono i giornalisti che scrivono la cronaca, le notizie, i magistrati che indagano o i giudici che giudicano, ma la mafia. La malavita organizzata che opprime la nostra esistenza, la società civile, la nostra vita; recluta i giovani per spacciare la droga e iniziare così la vita da delinquente, uccide barbaramente chi contrasta il malaffare e soffoca i le imprese, i commercianti, gli artigiani facendoli fallire. Come scrive Tomasi di Lampedusa: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”. Il Governo non è in grado di contrastate il fenomeno mafioso, malgrado le mille leggi e le tante vittime della mafia: giudici, giornalisti, collaboratori di giustizia, uomini delle forze dell’ordine, semplici testimoni e tanti giovani innocenti.

D’attualità il dilagare di varie forme di connubi e di rapporti ravvicinati da parte di uomini delle istituzioni con la malavita organizzata. Un fenomeno diffuso che stimola un acceso dibattito fra i rappresentanti delle istituzioni a tutti i livelli, spesso orientati a negare la presenza di realtà mafiose che comporta una sensibile perdita di immagine per le zone “conquistate” dai mafiosi, in ottimi rapporti ravvicinati con esponenti delle forze investigative e giudiziarie.

Si potrebbe parlare di segnali preoccupanti, d’inquinamento del tessuto economico e sociale, da parte dei sodalizi malavitosi. Nel “piccolo bosco” dei mafiosi, si trovano indizi di aiuti ricevuti da parte di politici che hanno barattato l’acquisto delle case popolare di proprietà dello Stato a buon prezzo, la pratica sbrigata, un contributo in denaro in cambio di voti, o piccoli ma continui favori a largo spettro in cambio di informazioni di inchieste che interessano elementi della malavita, anche attraverso compari o parenti.

“Questa indagine è una pietra angolare nella conoscenza della ‘ndrangheta e di questa nuova frontiera del crimine di matrice calabrese che si serve dei colletti bianchi per gestire il potere”. Lo dichiara il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, arrivando nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, dove si tiene la prima udienza preliminare dell’inchiesta “Rinascita-Scott”, con 452 imputati, fra i principali esponenti dei clan di Vibo Valentia. 

Il procuratore capo di Catanzaro ha sottolineato come “in questo processo c’è un’altissima percentuale di colletti bianchi e di quella che si definisce ‘zona grigia’, fatta di molti professionisti e uomini dello Stato infedeli che hanno consentito a questa mafia di pastori, caproni e gente rozza, con la forza della violenza e dei soldi della droga, di entrare mani e piedi nella pubblica amministrazione e nella gestione della cosa pubblica”. 

Il processo di progressivo allargamento delle basi territoriali dei sodalizi mafiosi e del ventaglio delle loro attività su scala locale, rappresenta un elemento di riflessione a cui i componenti della Commissione Antimafia dedicano la propria attenzione già da decenni. Sempre secondo la Commissione Antimafia, “analizzando i risultati a cui gli investigatori palermitani erano pervenuti attraverso una vasta operazione di polizia che, nel luglio 1971, aveva condotto alla denuncia di centoquattordici persone, i commissari dell’Antimafia sottolineano come basti scorrere l’elenco dei luoghi in cui queste persone vennero arrestate per avere una mappa, non completa, ma certo indicativa, di quelle che erano allora le presenze e le infiltrazioni mafiose in Sicilia e nel resto d’Italia”.

Quei pericolosi rapporti deviati tra mafiosi e uomini delle istituzioni. Tanti i casi in cui sono stati arrestati e puniti uomini delle forze dell’ordine con l’accusa di aver favorito uomini della mafia, passando notizie riservate e altri reati a ventaglio.

I giornalisti che fanno paura alla mafia

Nella via di mezzo tra la magistratura e malavita organizzata, ci sono i cronisti. La mafia odia le notizie pubblicate dai giornali e le inchieste che il loro malaffare, specie quelle ancora inedite. I giornalisti fanno paura a volte più delle forze di polizia e della magistratura.  Il giornalista oggi è nella stragrande maggioranza dei casi, grazie ad Internet, riesce ad arrivare spesso prima degli investigatori, fatto ormai consolidato che non piace agli “interessati”; questo porta a dare spazio al pettegolezzo, con accusa,  che magari il cronista è in buoni rapporti con inquirenti e investigatori, facendo elevare l’attenzione sulla notizie e magari innescare il meccanismo che fa scattare, nella fase delicata delle indagini, altre indagini per la fretta di raccontare e calunniare il giornalista che è stato bravo e fortunato nel scovare la notizia.

Concetto Alota

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