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L’avvocato Giuseppe Lipera tenta di trasferire a Siracusa l’inchiesta di Milano sullo scandalo Eni e il depistaggio contro Descalzi e Renzi

L’avvocato Giuseppe Lipera del foro di Catania, difensore di uno degli indagati nell’inchiesta sul complotto contro il numero uno dell’Eni Claudio De Scalzi e che aveva lo scopo di colpire anche Matteo Renzi attraverso un depistaggio, ha annunciato che sta lavorando alla stesura di un’istanza per trasferire il fascicolo d’indagine dalla procura di Milano a quella di Siracusa, dove il fascicolo dopo Trani è approdato per ultimo. La procura di Milano ha indagato in primis per l’ipotesi di “traffico di petrolio ai danni dell’Eni” in Nigeria. Poi il caso giudiziario si è trasformato anche in una congiura contro Claudio Descalzi, amministratore delegato del cane a sei zampe, ma poi si scopre che il bersaglio forse era tutto il governo italiano con in testa Matteo Renzi. Poi interviene quasi in contemporanea un tentativo di un depistaggio attraverso un dossier fatto recapitare alla procura di Trani, mentre alla procura di Siracusa si presentò un personaggio rimasto sconosciuto per motivi di sicurezza con un faldone di documenti, registrazioni, fotografie per denunciare a suo dire di essere stato minacciato di morte nell’ambito della formazione di un dossier contro il numeto uno di Eni Caludio De Scalzi e Matteo Renzi di riflesso. Costringere alle dimissioni il presidente del consiglio dei ministri Matteo Renzi, sarebbe il vero obiettivo del depistaggio nell’ipotesi di complotto internazionale, dove sono invischiati i servizi segreti di mezzo mondo e gli interessi sarebbero ufficialmente legati al petrolio nigeriano e alla tangente per una concessione petrolifera; così come anche a quelli legati ai tanti affari milionari e nei dintorni in altri paesi produttori di oro nero.

Sarebbero stati gli americani che avrebbero informato al più alto livello il Colle il presidente Sergio Mattarella, su un complotto contro il governo italiano per mezzo dell’Eni. Un’ennesima storia di spie e cospiri internazionali. Rivelazioni e depistaggi che si assommano uno su l’altro, in un groviglio di frode giudiziaria per mezzo di plichi con dentro registrazioni e lettere anonime, ma anche dichiarazioni poco attendibili.

Ma cosa c’è dietro? Il caso esplode nel mese di settembre del 2014, quando da Londra un fulmine a ciel sereno colpisce Roma e Milano: i vertici dell’Eni sono sotto inchiesta per corruzione internazionale dalla procura di milanese (la prima ad indagare).

Entrano nella scena i giudici londinesi della Southwark Crown Court, che accogliendo la richiesta dei due sostituti, il messinese Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, sequestrano in via preventiva al faccendiere nigeriano Emeka Obi due conti anglo-svizzeri di 100 e di 80 milioni di dollari. Secondo i giudici italiani e britannici quei soldi sarebbero provenienti dall’affare Opl-245, il giacimento di esplorazione petrolifera in Nigeria, del quale l’Eni aveva comprato la concessione nel 2011 pagando un miliardo e 90 milioni di dollari, quando Paolo Scaroni era amministratore delegato e Claudio Descalzi capo della divisione Oil.

Dollari che andarono al governo nigeriano, ma ad incassare parte del denaro furono anche un ex ministro del petrolio Nigeriano, Dan Etete, che a suo tempo per la modesta somma di 20 milioni di dollari era riuscito ad intestarsi il controllo del giacimento attraverso prestanome, ai tempi del dittatore Sani Abacha.

La notizia per Claudio Descalzi, fresco di nomina all’Eni da parte di Matteo Renzi che non aveva voluto confermare Paolo Scaroni, fu un colpo secco. E secondo le ipotesi dell’accusa dei pm milanesi, l’Eni avrebbe pagato una mega tangente in Nigeria per ottenere la concessione del giacimento petrolifero. Secondo questa tesi accusatoria, i protagonisti di quest’operazione sarebbero i vertici del cane a sei zampe, mentre gli intermediari sospettati sarebbero due italiani, Luigi Bisignano e Gianluca Di Capua, i nigeriani Etete, Obi e il figlio dell’ex presidente Abaca, insieme al russo Ednam Agaev.

Su un miliardo di euro pagati, 200 milioni sarebbero stati retrocessi per remunerare amministratori e dirigenti del colosso petrolifero italiano e altri personaggi satelliti.

Dalla procura di Siracusa la conferma che i magistrati inquirenti indagarono sulla vicenda, dove sono coinvolti a vario titolo e ascoltati diverse persone informate dei fatti, ma rimangono ancora nell’elenco tanti dirigenti dell’Eni, tecnici, amministratori Eni in Nigeria e in Italia, sottosegretari e uomini fidatissimi di Matteo Renzi, imprenditori e tanti intermediari, dove per la procura di Siracusa rimase un solo un indagato, Massimo Gaboardi, il tecnico petrolifero, che sarebbe accusato di corruzione internazionale, il quale avrebbe confermato il complotto ai danni dei vertici dell’Eni, così come avrebbe fatto anche l’imprenditore Andrea Bacci, e che avrebbe elencato i nomi di altri personaggi coinvolti a vario titolo nell’affaire Eni-Nigeria.

È questo lo scenario sul quale ha indagando per un breve ma intenso periodo la Procura di Siracusa, guidata da Francesco Paolo Giordano, affidando l’inchiesta giudiziaria Eni e dintorni al sostituto Giancarlo Longo, che ha vagliando a fondo le dichiarazioni di alcuni testimoni per verificarne l’attendibilità sia della corruzione, sia del complotto, insieme all’ipotesi del depistaggio montato ad arte per far cadere il governo italiano. Ma l’inchiesta per competenza territoriale nel mese di agosto scorso ritornò sul tavolo della procura di Milano insieme ai fascicoli d’indagine di Trani e di Siracusa; ma ora l’avvocato catanese Giuseppe Lipera in difesa del suo cliente sta valutando se presentare oppure no l’istanza per chiedere il trasferimento del fascicolo dalla procura di Milano a quella di Siracusa.

La domanda è: ma se la procura di Trani e di Siracusa non erano competenti perché hanno iniziato le indagini? Nelle grandi inchieste si assiste sempre a questi giri di valzer; ma il riferimento della legge non è al pubblico ministero bensì al “giudice”. Nessuna pagina del codice di procedura penale rileva la competenza del pubblico ministero; il riferimento riguarda sempre il “giudice”; l’articolo 51 del c.p.p. prevede che le funzioni inquirenti sono esercitate dai magistrati della procura della Repubblica presso il competente tribunale. E la verifica della propria competenza spetta al giudice, quindi alla sua competenza del territorio, dove l’articolo 8 a sua volta sancisce il territorio competente, rimane dove è stato consumato e se si tratta di reato permanente è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio l’azione. A chiarimento di ciò, l’articolo 9 a sua volta precisa e stabilisce che se non vi sono gli elementi per individuare la competenza così come recita l’articolo 8, sarà competente il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta parte dell’azione delittuosa. In mancanza di questi dati, la competenza apparterrà al giudice della residenza della dimora o del domicilio dell’imputato e se per tormentata ipotesi neppure questi parametri sono validi, sarà competente il giudice del luogo, dove ha sede l’ufficio del pubblico ministero che per primo ha iscritto la notizia di reato nel registro degli indagati.

Concetto Alota

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