È Morto Nunzio Salafia, “’u patriarca” aveva 66 anni
Ha lasciato questo mondo Nunzio Salafia, 66 anni, originario di Francofonte. È stato un pezzo da novanta della criminalità organizzata nel territorio siracusano e non solo. Una brutta malattia l’ha stroncato. Con un lungo fascicolo giudiziario è stato protagonista della vita malavitosa siracusana. Ecco una finestra sull’attività del “Patriarca” com’era chiamato per la sua lunga militanza, compreso i rapporti e il coinvolgimento in fatti gravi di mafia sia a Catania sia a Palermo.
Siracusa e la mafia: “Quel vertice a Enna per uccidere Falcone” – Dall’Achivio storico di Repubblica il 21.11.1992
ROMA – La commissione interprovinciale di Cosa Nostra ha deciso, in febbraio, l’ offensiva di morte della primavera e dell’ estate palermitana. Lima. Falcone. Borsellino. Salvo. Per tempo, da criminali comuni di Siracusa, la famiglia di Madonia si è procurata i due telecomandi che, con ogni probabilità, sono stati usati nella strage di Capaci e di via D’ Amelio. Si lavora su una testimonianza, su alcuni riscontri, su un intreccio che può essere sciolto. “E’ più che un’ ipotesi di lavoro – sostengono gli investigatori – sono i primi tasselli di un quadro che contiamo di ricostruire presto, molto presto”. Ecco spiegato l’ ottimismo della procura della Repubblica di Caltanissetta. Ecco spiegato il sorriso che accompagna le dichiarazioni del procuratore capo, Giovanni Tinebra. Per dare una ragione alla fiducia degli investigatori e dei giudici bisogna fare un passo indietro e seguire le mosse di un uomo d’ onore, Leonardo Messina, fin dall’ inizio del 1992. Una ‘ strana’ agitazione Leonardo Narduzzu Messina, 37 anni, capo decina della famiglia di San Cataldo, andò a Enna che era la fine di febbraio di quest’ anno. “Dovevo sbrigare faccende mie”. Enna è la provincia siciliana babba, ingenua, è la provincia senza ricchezze, senza violenza e senza mafia. Lo è, e lo è stata, perché Cosa Nostra così ha voluto, “perché Totò Riina – sostiene il procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra – è lì che qualche volta, o spesso, si nasconde”. Leonardo Messina trovò una “strana agitazione” tra gli uomini d’ onore della provincia babba, quel giorno di febbraio. Vide Liborio Miccichè, rappresentante della famiglia di Pietraperzia. Gli parve evasivo, silenzioso. Vide Raffaele Bevilacqua, un brillante avvocato di 40 anni, rappresentante ufficiale sia della Enna legale che di quella criminale. Democristiano. Consigliere provinciale. Rappresentante della famiglia di Barrafranca. Vicerappresentante nella commissione provinciale di Cosa Nostra. Evasivo e silenzioso, anche lui. Perché, si chiese Leonardo Messina. Che cosa stava succedendo? Che cosa doveva succedere? Messina, alla fine, con mezze e circospette domande riesce a saperlo. “Narduzzu – gli dice, di botto, Bevilacqua – sei capitato nel giorno sbagliato. Oggi si riunisce la commissione interprovinciale. Ci saranno Totò Riina, Piddu Madonia, Bernardo Provenzano, da Catania verranno Nitto Santapaola e Angelo Barbero”. “Miinghia…” rispose Messina. E pensò: “Se tutti i mammasantissima si vedono, non lo fanno per prendere una decisione qualsiasi…”. A marzo muore Salvo Lima, a maggio Giovanni Falcone. Cinque settimane dopo la strage di Capaci, alle 12,30 del 30 giugno Leonardo Messina siede per la prima volta di fronte a Paolo Borsellino. Narduzzu ha saltato il fosso. E’ passato d’ altra parte. E’ diventato un collaboratore della giustizia. Borsellino lo ascolta in silenzio, fumando una sigaretta dietro l’ altra, in una saletta spoglia del Servizio Centrale Operativo. Il giudice, dopo la morte di Giovanni Falcone, non vorrebbe occuparsi altro che di quel delitto che, per competenza, spetta alla procura di Caltanissetta. Ed è di quel delitto, della strage di Capaci, che Leonardo Messina parla a Paolo Borsellino. Subito. Fin dalle prime battute dell’ interrogatorio. “Signor giudice – dice Narduzzu – quei due delitti, la morte di Salvo Lima e di Giovanni Falcone, sono stati decisi in quella riunione, sono anelli di un’ unica strategia. La commissione interprovinciale, quella che noi chiamiamo Regione, non si riunisce per niente, si riunisce soltanto per decidere cose di gravità eccezionale. Solo ora ho capito, signor giudice: ad Enna, in quel giorno di febbraio, hanno deciso tutto… Solo ora sono in grado di mettere insieme cose diverse, solo ora ho capito. Ascolti, le voglio raccontare tutto…”. Ma a Paolo Borsellino piace andare con ordine. Interrompe Messina. Si fa raccontare perché vuole abbandonare Cosa Nostra, quando è stato combinato, e da chi, a quale famiglia è appartenuto, quali uomini d’ onore ha conosciuto. In una pausa, mentre mangia in fretta un tramezzino, confessa ad Antonio Manganelli, il capo del nucleo centrale anticrimine: “Questo Messina può farci fare molta strada. Può essere un vero colpo”. Alle quattro del pomeriggio, l’ interrogatorio riprende. E Narduzzu racconta quel che sa della strage di Capaci. “Già sapevo, signor giudice, che i rapporti della famiglia di Caltanissetta con i siracusani, che non sono uomini d’ onore, erano stretti, ma non pensavo quanto stretti. C’ era uno della nostra ‘ famiglia’ , uno che faceva il macellaio – si chiama Vincenzo Burcheri – che avevamo posato. Che significa? Significa che era stato sostanzialmente emarginato dalla famiglia, nessuno gli diceva più niente, nessuno lo prendeva più in considerazione. Poi d’ improvviso vedo che uno dei consiglieri di Piddu Madonia comincia a frequentare la macelleria di Burcheri. Che cosa stava succedendo? Vengo a sapere che Piddu aveva deciso di tenere di nuovo in conto il macellaio perché aveva in mano i siracusani e che noi utilizzavamo i siracusani per compiere dei delitti nella nostra zona. Poi, vengo arrestato. Nel carcere di Caltanissetta Giuseppe Di Benedetto – lo chiamavamo il piattaro, era un siracusano – mi confermò questi buoni rapporti. Mi disse che il capomandamento di Riesi, Pino Cammarata, uomo fidatissimo di Piddu, e Cataldo Terminio, che era un soldato della mia famiglia e anche consigliere provinciale di Caltanissetta, avevano chiesto ai siracusani due telecomandi. Sì, due telecomandi per esplosivo. Questi telecomandi – mi disse il piattaro – erano stato procurati da Agostino Urso. Sì, quello che hanno ucciso due giorni fa. Cammarata e Terminio avevano contattato Urso attraverso Valentino Salafia, fratello di Nunzio Salafia”. Agostino Urso. Valentino e Nunzio Salafia. Non sono nomi che non dicono nulla a Borsellino. Agostino Urso, 44 anni, era il capo della malavita siracusana, lo avevano ucciso il 28 giugno mentre se ne stava al sole su una sdraio al lido Sayonara a Fontane Bianche, quindici chilometri da Siracusa. I Salafia erano addirittura vecchie conoscenze per Borsellino. Nunzio Salafia, 53 anni, era stato accusato della “strage della circonvallazione” (fecero secco il boss catanese Alfio Ferlito, morirono anche i quattro carabinieri che lo scortavano). Era stato di nuovo arrestato, Nunzio Salafia, nel 1982 per l’ assassinio del prefetto Dalla Chiesa con il fratello Valentino, 31 anni, bloccato con un fucile calibro 22 con la matricola abrasa. La famiglia Madonia Borsellino chiede a Leonardo Messina di continuare. “Ma è quello che è successo, in carcere, dopo la strage di Capaci che mi ha dato la certezza che quei due telecomandi erano serviti per far saltare in aria il dottor Falcone – prosegue Narduzzu – La sera di quel 23 maggio, appena in carcere sapemmo della morte di Falcone, ci fu come un boato. Ci furono grida di gioia. Esultavano tutti. Furono proprio gli uomini d’ onore di Cosa Nostra a intervenire per calmare i più agitati, per calmare quella gioia. Volevamo evitare provvedimenti disciplinari, tutto qui. Ce ne volevamo stare tranquilli. Tutto qui. Quando tornò la calma, nella mia cella – erano sei gli uomini d’ onore – brindammo. Ricordo che c’ erano Emanuele Argenti, il figlio di Guido, Maurizio Argenti. Poi uscimmo nel corridoio che si attraversa per andare all’ aria. Mi venne incontro Giuseppe Di Benedetto. Mi abbracciò per congratularsi, mi baciò. Pensava che l’ attentato a Falcone fosse stato commesso utilizzando quei telecomandi e con il concorso della mia ‘ famiglia’ . Quel Di Benedetto il piattaro la sapeva lunga, aveva notizie di prima mano perché era in cella con un altro Agostino Urso, il cugino di quell’ Agostino Urso ucciso al Sayonara. E d’ altronde non mi meravigliai che i siracusani avessero dei telecomandi, dispongono di un gran quantitativo d’ armi, hanno anche tre bazooka”. E’ questa dichiarazione di Messina a rendere fiducioso il “gruppo di lavoro” di Caltanissetta. E’ da questo verbale di interrogatorio, che porta in calce la firma di Paolo Borsellino, che si dipana il filo che può portare agli esecutori e ai mandanti di Giovanni Falcone. E forse anche di Paolo Borsellino. I telecomandi di Siracusa erano due. E due sono state le stragi.
Giuseppe D’Avanzo