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Operazione Robin Hood, il boss Trigila: “Colloqui solo sull’azienda di famiglia”

Si sono avvalsi della facoltà di non rispondere il boss Antonio Trigila e la moglie Nunziatina Bianca, coinvolti nell’operazione Robin Hood, portata a termine martedì dai poliziotti della squadra mobile, dai carabinieri del nucleo operativo e dai militari del nucleo di polizia economico e finanziaria della guardia di finanza di Siracusa.

Il boss Pinnintula non ha inteso rispondere alle domande del gip del tribunale di Catania, Carla Valenti, ma ha rilasciato dichiarazioni spontanee con cui ha sostanzialmente rigettato ogni addebito. Ha detto che durante i colloqui in carcere con la moglie e con la figlia Angela non si parlava in maniera criptica ma della gestione materiale dell’azienda di famiglia che si occupa di pastorizia e di prodotti ortofrutticoli. Ha detto anche di non avere avuto contatti con il figlio Giuseppe che, nel periodo delle indagini tra il 2016 e il 2018, era detenuto. Trigila ha anche riferito di volere approfondire la lettura dei verbali e dell’ordinanza per poi ribattere nel dettaglio ogni accusa.

Anche la moglie di Trigila ha fatto scena muta ma, assistita dall’avvocato Antonino Campisi, anche lei ha respinto le accuse formulate dai magistrati della Dda di Catania. Dice di non essersi occupata mai di fare da mediatrice tra il marito e i componenti del clan mentre, per quanto riguarda i contributi dell’Agea, la donna ha detto di essere legittimata a prenderli per una serie di norme e di leggi che consentivano la presentazione delle domande, al contrario di quanto sostengono gli investigatori delle fiamme gialle.

Ha risposto, invece, Giuseppe Caruso alias “’u Caliddu” che ha protestato la sua estraneità ai fatti oggetto della contestazione. Ha affermato che svolge l’attività di intermediario e come tale, le conversazioni intercettate dagli investigatori si riferivano non tanto a tentativi di estorsione o minacce nei confronti di autotrasportatori e titolari di ditte, ma una richiesta specifica nei confronti di interlocutori da cui avanzava solti. Ha ammesso la sua irruenza nel modo di esprimersi con i diretti interessati ma ha spiegato che fa parte del suo carattere.

S’è avvalso della facoltà di non rispondere anche il netino Giuseppe Crispino, che è accusato di avere svolto un ruolo di primo piano nella gestione degli affari illeciti del clan Trigila. Scena muta hanno fatto anche tutti gli altri indagati.

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