Petrolchimico siracusano: un futuro con poche speranze
L’intervento – di Concetto Alota –
L’allarme lanciato con l’invito alla mobilitazione generale da parte del Presidente di Confindustria Siracusa, Diego Bivona, per affrontare la crisi del polo industriale di Siracusa, è il segnale di un futuro con poche speranze per il petrolchimico siracusano. La politica in Sicilia ha fallito ancora una vota; non riesce a predisporre un progetto di lungo respiro politico, economico e sociale. Non a caso Bivona ha parlato del fallimento della realizzazione del rigassificatore nella rada di Augusta.
“Mi sembra di rivivere il periodo del progetto del rigassificatore di Ionio Gas che sappiamo tutti come è finito per le fandonie di pochi, nel silenzio del territorio”.
“All’epoca era in ballo un investimento – continua Bivona – che avrebbe dato ulteriore impulso alla nostro polo industriale e che, alla luce dei fatti, oggi sarebbe stato più che mai necessario. Ma oggi è in discussione la vita dell’intero polo industriale e non dobbiamo fare l’errore di lasciare sole le aziende. Come dice il Segretario della CGIL Roberto Alosi, di cui ho apprezzato e condivido l’appello per un’azione comune unitaria, non staremo a guardare”.
In Europa la crisi si presenta profonda e senza uscita. Le previsioni parlano di un aumento del trasporto di petrolio in seguito alla chiusura delle raffinerie ormai vecchie e improduttive. Sono tanti gli impianti che rischiano la chiusura in tutto il mondo. Le raffinerie vengono chiuse a causa dell’inasprimento delle norme ambientali e della concorrenza estera. Alcuni impianti vengono convertiti alla produzione di biocarburanti. Ma non basta a frenare la crisi che appare sempre più sinistra
Negli ultimi 15 anni sono state chiuse in Europa circa 14 raffinerie e altre 15 rischiano di chiudere i battenti in malo modo. Il settore della raffinazione in Europa è in forte crisi. Ma la situazione peggiore è in Italia che si trova ormai da diversi anni in un vicolo cieco. Tra calo delle esportazioni e riconversione degli impianti in costante perdita, l’Italia ha bisogno di una restaurazione radicale. I prodotti petroliferi italiani, oggi soffrono la concorrenza degli esportatori asiatici, che, anche a fronte di costi di trasporto maggiori, possono contare su costi di produzione, del lavoro, della tecnologia e mancanza di standard per l’ambiente, molto inferiori rispetto ai produttori italiani. Si registra così il calo delle esportazioni dei prodotti raffinati del 15%. I mercati verso cui l’Italia esportava sono stati rappresentati dai Paesi dell’Europa occidentale e dell’area mediterranea. La stagnazione della domanda rende difficile la riconquista del mercato perduto; un ruolo rilevante è la concorrenza di operatori, cinesi, russi, in prima linea sia per l’approvvigionamento di prodotti che nella costruzione di impianti in loco. Difficile immaginare un riposizionamento forte sui mercati.
Tutte le raffinerie in Italia sono a rischio di sopravvivenza e con esse tanti posti di lavoro. Proseguendo su questa strada c’è il pericolo di diventare dipendenti dalle forniture estere non solo per il petrolio e il gas, ma anche per i prodotti finiti. Conviene di più produrre fuori dall’Europa a minor prezzo e importare il prodotto finito dai Paesi che utilizzano sistemi molto più inquinanti dei nostri e con un costo del lavoro inferiore.
Anche i russi che fino a pochi anni fa erano interessati al settore della raffinazione, nonostante la crisi, oggi mettono in vendita tutte le proprie raffinerie in Europa; il comparto non è più strategicamente importante.
I costi di produzione per i produttori italiani sono più elevati per effetto degli oneri all’applicazione di normative in materia di tutela dell’ambiente e della salute, a cui si devono aggiungono i costi di trasporto delle materie prime. Ad aggravare la situazione in Italia è in particolare il carico fiscale.
Dal punto di vista produttivo, insiste il grave problema delle raffinerie italiane che lavorano in media a un tasso di utilizzo del 72%, mentre negli Stati Uniti e in tanti altri paesi questo tasso è superiore al 92%. Esiste così un vantaggio nel concentrare le attività di raffinazione su un numero inferiore di raffinerie, ma utilizzarle al massimo della capacità. Riportare gli impianti alla competitività perduta e tenere da conto dell’inquinamento sulla base delle nuove norme europee è difficile da attuare. Per non incorrere in perdite, gli impianti devono lavorare almeno al 85% % della loro capacità produttiva. E quindi i margini di raffinazione sono negativi per tutti. I costi lordi sono in aumento, mentre i ricavi si abbassano con perdite secche e difficile da recuperare.
La raffinazione ha finora avuto un valore strategico anche in termini di occupazione diretto e indotto con la perdita di migliaia di posti di lavoro a livello europeo; la chiusura anche di un solo impianto è sinonimo di perdita di occupazione, prima ancora che di competitività per l’economia italiana. La strategia efficace sarebbe la riconversione degli impianti, consentendo la trasformazione in siti di stoccaggio o siti per la valorizzazione energetica dei rifiuti, ma per il momento, specie in Sicilia, è solo una pazza idea.
C’è poi il problema della chimica sostenibile e del possibile sviluppo nell’applicazione di prodotti, processi e soluzioni tecnologiche che portino a un miglioramento della salute dei lavoratori e dei consumatori, oltre che dell’impatto ambientale e una riduzione del consumo di fonti energetiche e di materie prime non rinnovabili. La chimica sostenibile è il futuro, sia per la parte connessa a rendere più efficienti processi e prodotti; un campo su cui si stanno confrontando i principali Paesi europei attraverso politiche industriali miranti a creare eccellenze nazionali. Nel giro di 5/6 anni il comparto petrolchimico europeo deve necessariamente rivoluzionarsi o è destinato a soccombere.