Siracusa. Disastro ambientale: la linea morbida della Procura non è bastata
L’approfondimento – a cura di Concetto Alota
Nella zona industriale siracusana, sul piano delle battaglie contro l’avvelenamento selvaggio dell’ambiente, c’è sempre stata una linea morbida, di buona volontà, verso la risoluzione del problemi legati all’inquinamento; il tutto con allo sfondo l’economia e il sociale, in difesa dei posti di lavoro, ma, a volte, molto sbilanciata da parte di qualche industria. Negli oltre 70anni di vita del petrolchimico, tra il potere economico delle industrie in connubio con la politica, è stato palese. Ma dopo tanti sussurra e grida, luci e ombre, oggi si cambia musica. Tutti sapevano, ma tutti tacevano. Ora si grida al disastro sociale e alla perdita dei posti di lavoro. È chiaro che, giocoforza, la musica è cambiata. Un comportamento insopportabile di qualche azienda del petrolchimico siracusano, ha fatto scattare la molla della Giustizia, senza alcuna speranza. Troppe volte si sono verificati casi d’inquinamento nel silenzio generale. Nessuno si aspettava una decisione così drastica, legalmente necessaria, da parte della Procura di Siracusa. Troppe volte si sono verificati tentativi di rallentare con comunicati di buona volontà verso il controllo dell’inquinamento, ma era solo aria fritta per tirare a campare, non tenendo da conto le richiesta della Procura per riportare i livelli d’inquinamento in linea con le norme di legge. Ed ecco che dopo tanti anni di tira e molla, la Procura è stata costretta ad intervenire per fermare l’inquinamento selvaggio in mare, in cielo e in terra.
La misura della sospensione per un anno dell’esercizio di qualsiasi mansione all’interno delle società coinvolte nell’indagini, nonché presso imprese concorrenti o comunque operanti nello stesso settore produttivo, a carico dei vertici della Società Versali Spa, Sonatrac Raffineria Italiana Srl, Esso Italiana Srl, Sasol Italy Spa, Isab Srl, Priolo Servizi, che nel depuratore gestito dall’Ias immettono i loro reflui industriali, è il risultato di anni di silenzio e furbizia silente; il tutto, in una sorta di presunzione, come dire “tanto non succederà mai niente”.
La Procura di Siracusa ha tentato fin dall’inizio dell’inchiesta No Fly di trovare una linea morbida, specie con il comparto della depurazione, il corpo finale dei reflui industriali, con la speranza di riportare a livelli consentiti l’inquinamento di cui si accusano i vertici del depuratore consortile e di riflesso delle industrie.
A tutti viene addebitato il delitto di disastro ambientale aggravato in relazione all’inquinamento atmosferico e marino, tutt’ora in corso di consumazione, nonché altre fattispecie di reato connesso e all’illegittimità dei titoli autorizzativi.
Speculari addebiti sono mossi alle società coinvolte ai sensi del D.Lgs n° 231/2001. Il Decreto legislativo 231/01 introduce per la prima volta nell’ordinamento italiano la responsabilità delle aziende per reati posti in essere da Amministratori, Dirigenti e/o Dipendenti nell’interesse o a vantaggio dell’Organizzazione stessa.
Le prolungate indagini e accertamenti tecnici da parte di consulenti nominati dalla Procura di Siracusa, “il delitto di disastro ambientale aggravato è stato ravvisato in ragione dell’offesa alla pubblica incolumità desumente dall’enorme quantità di sostanze nocive abusivamente immesse sia in mare sia in atmosfera, dalla loro tossicità e nocività per la salute dell’ambiente e degli uomini, dalla durata dell’abusiva emissione e dal numero di persone potenzialmente interessate alla loro diffusione”.
L’ordinanza, accogliendo l’impostazione avanzata dalla Procura a seguito di ponderato esame, “ha riconosciuto la totale inadeguatezza dell’impianto sequestrato allo smaltimento dei reflui industriali immessi dalle società coinvolte, tanto da stabilire che il depuratore gestito dall’Ias dovrà continuare ad operare solo con riferimento ai reflui domestici, senza più poter consentire l’immissione dei reflui provenienti dalle grandi aziende del polo petrolchimico siracusano”.
Scrive la Procura: “Il provvedimento, dalla cui esecuzione potranno derivare comprensibili ripercussioni sul delicato sistema economico-sociale della realtà produttiva della provincia di Siracusa, si è reso indispensabile per impedire che il depuratore continuasse ad operare sulla base degli attuali titoli autorizzatori, che sono stati ritenuti non conformi alla legge, non più efficaci da oltre un decennio e comunque, solo parzialmente rispettati”.
“Le gestione messa in atto, descritta nell’ordinanza, avrebbe provocato negli anni l’immissione non consentita in atmosfera di circa 77 tonnellate all’anno di sostanze nocive, fra cui alcune cancerogene come il benzene, e di oltre 2500 tonnellate di idrocarburi in mare, negli anni fra il 2016 e il 2020”.
Le industrie del petrolchimico siracusano inquinano tanto da essere considerati fuorilegge; la conferma inizia con il sequestro copioso degli impianti, con atti irripetibili da parte della Procura di Siracusa, nell’operazione denominata “No Fly”, fortemente compromessa dai riflessi del Covid-19 per la mancata possibilità di portare avanti controlli a tappeto. La Procura di Siracusa, malgrado il rallentamento delle indagini a causa del Covid, ha continuato la sua decisa marcia tra impedimenti e tergiversi verso le indagini nella generalità. Nei fatti pratici, si è continuano a produrre veleni nell’ambiente che ogni giorno ci propinano una quantità di inquinanti attraverso l’aria, la falda acquifera, il mare, la terra. La logica fisica e chimica vuole che è impossibile non inquinare; le raffinerie sono per antonomasia, inquinanti. Cosa fare allora? È il destino dei vinti: chiudere gradatamente.
I cittadini che vivono nei Sin, come la nostra zona industriale e i dintorni, le aree contaminate più pericolose che lo Stato vorrebbe a parole bonificare, sono colpiti da veleni dieci volte in più rispetto alle zone “normali”. Le industrie e i trafficanti di rifiuti tossici e nocivi, commettono clamorose infrazioni; l’Italia è stata condannata parecchie volte dalla Corte di giustizia europea.
Il profitto, dunque, prende il sopravvento e passa prima d’ogni cosa, di tutto; insomma, alla faccia del degrado ambientale, dei danni alla salute e delle sanzioni applicate all’Italia e ai suoi contribuenti. Il petrolchimico siracusano è considerato tra i più impattanti a livello sanitario, alcuni fatti e circostanze sono già noti alle cronache, mentre altri sono rimasti sempre nella semioscurità. È stato e rimane un luogo da tenere sotto osservazione per le emissioni di veleni a più non posso, e nel passato anche di mercurio. Ma lo scenario apocalittico, non cambia, ed anzi, peggiora. L’operazione Mare Rosso portò alla luce un sistema criminale. Nessun rispetto per la vita umana e per l’ambiente. Ma non è bastato. Si è continuato a inquinare in libertà, con tanti connubi e silenzi tra la politica e le industrie.
Una buona notizia per i cittadini residenti nei comuni industriali, ormai disperati perché colpiti da decenni da puzza e miasmi giorno e notte con turni regolari avvicendati, in base a come spirano i venti. Con la chiusura dell’indagine del primo troncone dell’inchiesta denominata “No Fly”, la Procura ha messo una pietra miliare sulla lotta all’inquinamento selvaggio. L’avviso di conclusione indagine nei confronti di aziende dell’area del petrolchimico siracusano, dirigenti e funzionari delle stesse imprese, chiuse il cerchio su un periodo nero fatto di tergiversi e connubi.
Ma questa volta quello della Procura appare come un deciso atto di forza al contrasto all’inquinamento nel territorio del petrolchimico siracusano. Tutto si formalizza con l’inchiesta denominata ”No Fly”. L’accusa iniziale è quella d’inquinamento ambientale in concorso. I dati di analisi raccolti da consulenti e tecnici hanno, nella buona sostanza, rilevato “concentrazioni stabilmente elevate delle sostanze” prese in considerazione dalle misurazioni effettuati presso le centraline di rilevamento; “ripetuti eventi di picchi di l’elevata concentrazione d’inquinanti”, la mancata utilizzazione delle “migliori tecniche disponibili” da parte dei responsabili degli stabilimenti. In sintesi, gli stessi consulenti tecnici hanno altresì evidenziato di avere raccolto elementi che “inducono a ritenere che la qualità dell’aria nel territorio interessato si sia fortemente degradata”, rilevando come “nei comuni di Priolo Gargallo, Augusta e in parte Melilli si registra una qualità dell’aria nettamente inferiore a quella degli altri Comuni della provincia, avuto riguardo ai vari inquinanti presi in considerazione”.
Scrivono i magistrati a cavallo del troncone delle indagini sul fascicolo denominato No Fly: “(…) un contributo rilevante al deterioramento significativo e misurabile della matrice “aria” nella porzione di territorio dei Comuni della Provincia di Siracusa già definita ad elevato rischio ambientale e, in buona parte, qualificata come Sito di Interesse Nazionale in relazione a detto rischio ambientale con Decreto del Ministero dell’Ambiente 19/01/2000, pubblicato in G.U. il 23/02/2000 (Istituzione Sin Priolo Gargallo). Con l’aggravante di aver commesso il fatto nonostante la previsione dell’evento. Fatti commessi in Priolo, Melilli, Augusta e Siracusa, dal momento delle rispettive nomine in avanti, condotta in corso, ricadute su vasta area”.
L’ultima parte delle indagini appena concluse è la continuazione di quella iniziale denominata No Fly. La ripresa delle indagini dopo una breve pausa dettata dall’epidemia da Covid-19 lasciava sperare i necessari chiarimenti sulla grave situazione che ormai è diventata improcrastinabile. La puzza e i miasmi si sono addirittura aggravati e la situazione appariva fuori controllo, con l’angoscia della popolazione residente costretta a vivere tra miasmi, fumi e bolle di gas velenosi in libertà. Filone chiuso a cui hanno lavorato a lungo e tanto impegno gli uomini della Guardia di finanza, del Nictas, l’Arpa e consulenti della Procura di Siracusa; gli investigatori hanno fatto la spola tra gli impianti delle industrie sotto inchiesta e i depuratori, in primis quello consortile di Priolo gestito dall’Ias in cui le visite degli investigatori sono state davvero copiose, con acquisizione, non solo nella sede dello stabilimento di Priolo, con atti irripetibili, prelievi e foto. Una corposa documentazione riversata su tavoli della Procura.
I nuovi riscontri investigativi appurati, si baserebbero su alcune logiche deduzioni, con dei probabili delatori molto informati, scaturiti in una sorta di scatole cinesi in cui ci sarebbero per alcune società, le attività e le adunanze dei consigli di amministrazione, a partire dagli ultimi 5/6 anni, oltre al possibile inquinamento, smaltimento dei rifiuti, dei fanghi, del percolato, la manutenzione e l’appalto dei lavori. Acquisiti a suo tempo dagli inquirenti deliberazioni, verbali e nomine da comparare con la tempistica per stabilire eventuali responsabilità in ordine ai fatti sottoposti dagli inquirenti ad approfondimenti.
E ancora, le attenzioni verso le sostanze utilizzate in tali cicli o aggiunte ai prodotti finali e infine alle sostanze di scarto raccolte come rifiuti o emesse nell’ambiente, compreso i reflui industriali e fognari trattati nei depuratori, scarti bruciati e scaricati in torcia.
In un primo momento, l’accusa era d’inquinamento ambientale in concorso, ma per alcune società, le indagini si sarebbero allargate, oltre all’inquinamento dell’ambiente, anche alle tematiche dell’appalto dei lavori e alla possibile ritardata manutenzione degli impianti fino al possibile deperimento e cattivo funzionamento.
Il procuratore aggiunto Fabio Scavone e i pubblici ministeri Tommaso Pagano e Salvatore Grillo avevano chiuso il cerchio delle indagini sull’emissione delle sostanze odorigene nell’atmosfera ritenendo confermata l’ipotesi che le imprese abbiano omesso di adattare gli impianti alle prestazioni attendibili in base alle migliori tecniche disponibili e di attuare le misure tecniche necessarie per contenere le emissioni, provocando lo sversamento nell’aria di quantitativi di sostanze inquinanti connotate da odore molesto.
Le accuse iniziali a vario titolo sono di “avere omesso di adoperarsi per la copertura le superfici delle vasche di trattamento delle acque reflue oleose ancora scoperte; la mancata manutenzione e sostituzione delle coperture dei serbatoi per lo stoccaggio; la mancata captazione dei vapori emessi nelle operazioni di carico e scarico dei prodotti petroliferi”. Ciò avrebbe comportato “concentrazioni significative” di idrocarburi aromatici, tra i quali il benzene con picchi anche di oltre 500 microgrammi per metro cubo a fronte di un limite medio annuo di 5 microgrammi; di non avere osservato le prescrizioni dell’Aia, autorizzazione integrata ambientale, con riferimento “ai valori limite di emissione in relazione ai parametri relativi alla concentrazione delle sostanze inquinanti” i cui parametri sarebbero stati superati in diverse ciminiere contribuendo al “deterioramento significativo” dell’aria. Non si sarebbero adoperati “per il completamento delle soluzioni impiantistiche idonee a contenere la generazione di emissioni diffuse d’inquinanti e odorigene”.
La Procura di Siracusa, diretta dal procuratore capo Sabrina Gambino, ha voluto accertare se gli impianti di raffinazione del petrolio e della depurazione dei reflui industriali e civili sono da considerare fonti di esposizione da inquinanti ambientali, dannosi per la vita degli esseri umani, e se la lavorazione del petrolio e dei suoi derivati possa comportare rischi per le persone che siano esposte agli effetti dei prodotti finali fuori controllo, gas combustibili, zolfo, Gpl, benzine, gasoli, oli, bitumi e altri prodotti intermedi nei vari cicli tecnologici e di distillazione, cracking, reforming. E ancora, alle sostanze utilizzate in tali cicli o aggiunte ai prodotti finali e infine alle sostanze di scarto raccolte come rifiuti o emesse nell’ambiente, compreso i reflui industriali e fognari trattati nei depuratori, scarti bruciati e scaricati in torcia.
Sui tavoli degli inquirenti ci sono anche gli studi tossicologici sulle sostanze cui i lavoratori del settore possano essere stati esposti; studi basati sia su sperimentazioni animali sia sui risultati di approfondimenti epidemiologici effettuati su operatori potenzialmente esposti a olio crudo e agli elementi volatili. Tutte queste sostanze sono giocoforza presenti negli impianti dell’Ias, così come negli altri depuratori della zona industriale, in cui sono convogliati i reflui della produzione industriale; una sorta di pozzo nero generale. Ed è su questo e altri aspetti che la Procura intende fare chiarezza.
I tre consulenti nominati dalla Procura a suo tempo, a seguito di controlli e indagini sul campo avevano rilevato “un preoccupante divario tra le prescrizioni imposte dai documenti autorizzativi e le effettive condizioni di concreto esercizio degli impianti, risultati vetusti, privi di fondamentali accorgimenti per l’abbattimento delle emissioni diffuse nonché privi del previsto sistema di monitoraggio in continuo delle cosiddette emissioni convogliate”.
La situazione ritenuta più critica rimane quella del depuratore consortile di Priolo. La Procura aveva chiesto alla società consortile Ias, che gestisce lo stabilimento di Priolo, la riduzione delle emissioni provenienti dall’impianto mediante la progettazione di uno o più sistemi per la captazione e l’abbattimento degli odori prodotti dall’impianto, o tramite adeguamento dell’impianto di deodorizzazione costruito e mai entrato in funzione, o attraverso una nuova progettazione e realizzazione di un altro impianto idoneo ed efficace allo scopo. Il vertice dell’Ias ha aderito alle prescrizioni e i tecnici hanno depositato il progetto di mitigazione del problema relativo all’emissione di sostanze odorigene in atmosfera, ma non è bastato. Progetto che prevedeva la copertura delle vasche in cui confluiscono i reflui prodotti dagli stabilimenti del petrolchimico e quelli civili, in modo da annullare l’emissione di sostanze odorigene che provocano disagio tra la popolazione.
Si innesta all’orizzonte su alcuni degli indagati a più livelli, l’accusa di “culpa in vigilando”, espressione latina traducibile con “colpa nella vigilanza”, è, in diritto, la colpa conseguente alla mancata sorveglianza nei casi in cui quest’ultima rientri espressamente nei propri doveri di responsabilità oggettiva. Ma in alcuni casi dell’inchiesta No Fly e nel filone d’indagine appena chiuso, i diretti interessati avrebbero per iscritto e più volte richiesto, addirittura trascritto nei verbali delle adunanze dei vari consigli di amministrazione, ai tecnici incaricati alla conduzione degli impianti, lo stato dei sistemi produttivi e il possibile inquinamento, senza però ricevere quanto richiesto. Fatto che è stato scoperto anche dagli investigatori sulle carte acquisite. Si profila in questo caso, la differenziale condizione di forza. I pm titolari dell’inchiesta, sicuramente adopereranno i risvolti di siffatta condizione, per confermare quanto sostenuto dalle indagini. Insomma, una sorta di super testimoni, per confermare le colpe diffuse nel voler nascondere anche ai vertici delle aziende incriminate, l’inquinamento selvaggio, con l’assoluzione per i vertici aziendali.
È questo un dramma senza fine, carico di dolore, malati e morti a causa di brutte malattie e tumori. Succede all’interno dei luoghi di lavoro, in famiglia, negli spazi di aggregazione. Di solito si subisce con una forte sofferenza interna per paura di essere coinvolti ancor di più in situazioni poco edificanti. La sociologia assume, oggi più che mai, gli aspetti di un fenomeno diffuso, ma con la dovuta riflessione della sintesi intrinseca nella falsa società in cui viviamo e di una politica incapace.
Tutto si svolge in un clima velenoso, amaro, avvilente a tratti misterioso in un bosco di alterazione e menzogne, con tanti giochi di potere e montagne di soldi sparsi in lungo e in largo per la Sicilia dei gattopardi. Infatti, niente cambia e tutto rimane avvolto dalla vecchia e poco salutare putrefazione della corruzione galoppante.
Verso la fine della raffinazione
Negli ultimi dieci anni sono state chiuse in Europa ben 14 raffinerie e altre 15 stanno per chiudere i battenti in malo modo. Il settore della raffinazione in Europa è in forte crisi. Ma la situazione peggiore è in Italia che si trova ormai da diversi anni in un vicolo cieco. Tra calo delle esportazioni e riconversione degli impianti in costante perdita, l’Italia ha bisogno di una restaurazione radicale. I prodotti petroliferi italiani, oggi soffrono la concorrenza degli esportatori asiatici, che, anche a fronte di costi di trasporto maggiori, possono contare su costi di produzione, del lavoro, della tecnologia e mancanza di standard per l’ambiente, molto inferiori rispetto ai produttori italiani. Si registra così il calo delle esportazioni dei prodotti raffinati del 15%. I mercati verso cui l’Italia esportava sono stati rappresentati dai Paesi dell’Europa occidentale e dell’area mediterranea. La stagnazione della domanda rende difficile la riconquista del mercato perduto; un ruolo rilevante è la concorrenza di operatori, cinesi, russi, in prima linea sia per l’approvvigionamento di prodotti che nella costruzione di impianti in loco. Difficile immaginare un riposizionamento forte sui mercati.
Tutte le raffinerie in Italia sono a rischio di sopravvivenza e con esse tanti posti di lavoro. Proseguendo su questa strada c’è il pericolo di diventare dipendenti dalle forniture estere non solo per il petrolio e il gas, ma anche per i prodotti finiti. Conviene di più produrre fuori dall’Europa a minor prezzo e importare il prodotto finito dai Paesi che utilizzano sistemi molto più inquinanti dei nostri e con un costo del lavoro inferiore.
Anche i russi che fino a pochi anni fa erano interessati al settore della raffinazione, nonostante la crisi, oggi mettono in vendita tutte le proprie raffinerie in Europa; il comparto non è più strategicamente importante.
I costi di produzione per i produttori italiani sono più elevati per effetto degli oneri all’applicazione di normative in materia di tutela dell’ambiente e della salute, a cui si devono aggiungono i costi di trasporto delle materie prime. Ad aggravare la situazione in Italia è in particolare il carico fiscale.
Dal punto di vista produttivo, insiste il grave problema delle raffinerie italiane che lavorano in media a un tasso di utilizzo del 72%, mentre negli Stati Uniti e in tanti altri paesi questo tasso è superiore al 92%. Esiste così un vantaggio nel concentrare le attività di raffinazione su un numero inferiore di raffinerie, ma utilizzarle al massimo della capacità. Riportare gli impianti alla competitività perduta e tenere da conto dell’inquinamento sulla base delle nuove norme europee è difficile da attuare. Per non incorrere in perdite, gli impianti devono lavorare almeno al 85% % della loro capacità produttiva. E quindi i margini di raffinazione sono negativi per tutti. I costi lordi si aggirano sui 4 dollari al barile, mentre i ricavi vanno da 1,5 a 2 dollari, con perdite secche e difficile da recuperare.
La raffinazione ha finora avuto un valore strategico anche in termini di occupazione diretto e indotto di circa 550.000 posti di lavoro a livello europeo; la chiusura anche di un solo impianto è sinonimo di perdita di occupazione, prima ancora che di competitività per l’economia italiana. La strategia efficace sarebbe la riconversione degli impianti, consentendo la trasformazione in siti di stoccaggio o siti per la valorizzazione energetica dei rifiuti, ma per il momento è solo una pazza idea.
C’è poi il problema della chimica sostenibile e del possibile sviluppo nell’applicazione di prodotti, processi e soluzioni tecnologiche che portino a un miglioramento della salute dei lavoratori e dei consumatori, oltre che dell’impatto ambientale e una riduzione del consumo di fonti energetiche e di materie prime non rinnovabili. La chimica sostenibile è il futuro, sia per la parte connessa a rendere più efficienti processi e prodotti; un campo su cui si stanno confrontando i principali Paesi europei attraverso politiche industriali miranti a creare eccellenze nazionali. In Sicilia la chimica è rappresentata a Ragusa con il polietilene, a Priolo cracking, oleofine, intermedi e aromatici. Ma nel giro di 5/6 anni il comparto petrolchimico europeo deve necessariamente rivoluzionarsi o è destinato a soccombere, ma rimane aperta la grave questione delle bonifiche.