Storia e Cultura, Scipio Di Castro: I Siciliani sono invidiosi dalla nascita, adulatori, litigiosi e…
Pagina a cura di Concetto Alota
Scipio di Castro, poeta e scrittore italiano, citato da Leonardo Sciascia nei suoi libri, Sicilia e sicilitudine, La corda pazza, Scrittori e cose della Sicilia, ha scritto durante la sua esistenza, dal 1521 al 1588, che “i siciliani generalmente sono più astuti che prudenti, più acuti che sinceri, amano le novità, sono litigiosi, adulatori e per natura invidiosi; sottili critici delle azioni dei governanti, ritengono sia facile realizzare tutto quello che loro dicono farebbero se fossero al posto dei governanti. D’altra parte, sono obbedienti alla Giustizia, fedeli al Re e sempre pronti ad aiutarlo, affezionati ai forestieri e pieni di riguardi nello stabilirsi delle amicizie. La loro natura è fatta di due estremi: sono sommamente timidi e sommamente temerari. Timidi quando trattano i loro affari, poiché sono molto attaccati ai propri interessi e per portarli a buon fine si trasformano come tanti Protei, si sottomettono a chiunque può agevolarli e diventano a tal punto servili che sembrano nati per servire. Ma sono di incredibile temerarietà quando maneggiano la cosa pubblica e allora agiscono in tutt’altro modo”.
——————–
LA STORIA E SCIPIO DI CASTRO
di Roberto Zapperi – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 22 (1979) Fonte Treccani
CASTRO, Scipio, nacque da un Pietro, del quale non si ha alcuna notizia, intorno al 1521 probabilmente in Policastro, la cittadina sul golfo omonimo, che era una antica sede vescovile suffraganea di Salerno.
Studiò a Napoli nel convento di S. Giovanni a Carbonara, sede della omonima Congregazione autonoma dell’Ordine degli eremitani di S. Agostino. Nel settembre del 1544 aveva già professato i voti e assunto il nome di Cornelio da Policastro. Centro di buoni studi umanistici, il convento era stato illustrato dalla presenza di Girolamo Seripando che l’aveva dotato di una biblioteca ricca di codici latini e greci provenienti dal lascito di Giano Parrasio. Gli studi ai quali egli vi attese, secondo le prescrizioni del Seripando allora generale dell’Ordine, non dovettero sfuggire alla generale intonazione letteraria che il secolo imponeva ovunque alla sua cultura. Sta di fatto comunque che egli fece la sua prima comparsa con la pubblicazione di quattro sonetti petrarcheschi nella raccolta: Libro terzo delle rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori nuovamente raccolte, in Vinetia, al segno del Pozzo, 1550, appresso Bartolomeo Cesano, cc. 145v-146r.
Alla data del 1550 doveva essere già fuggito dal convento: secondo una sua dichiarazione tarda e sospetta, avrebbe servito Ferrante Gonzaga, governatore dello Stato di Milano, dal 1549 al 1554. Certo è solo che nel 1555 bazzicava negli ambienti della corte milanese, dove al Gonzaga era succeduto temporaneamente il duca d’Alba, confuso nella folla dei cortigiani del rango più basso. Aspirava al posto di segretario, ma doveva contentarsi di mansioni più modeste e assai meno confacenti alle sue ambizioni intellettuali. Si sa che nel giugno di quell’anno fu inviato in Piemonte, oltre le linee dei Francesi che lo occupavano, per trattare con certi fuorusciti milanesi, i Birago, che militavano in quell’esercito, il passaggio al servizio spagnolo. Sembra che abbia condotto a termine questa missione, almen o lo dichiarò a Ginevra, dove capitò alla metà di luglio, per abbracciarvi, così disse, la religione riformata, ma in realtà per cercarvi miglior fortuna e chiudere con il suo passato degradante di spia. Per accreditare questo desiderio di cambiare vita, raccontò di una mirabolante impresa architettata contro Ginevra dal duca di Savoia in combutta con gli avversari ginevrini di Calvino esuli a Berna e con l’appoggio del duca d’Alba e del nunzio pontificio presso i Cantoni svizzeri Ottaviano Della Rovere. Disse di avere visto a Milano, alla corte dell’Alba, uno dei fuorusciti ginevrini e di avere avuto incarico di controllare in loco l’esattezza di una pianta di Ginevra che quegli vi aveva portato. Ammise pure, e fu grave imprudenza, di avere riscontrato l’esattezza della pianta e di averne già scritto a Milano. Queste dichiarazioni che anticipò al pastore della Chiesa italiana e confermò con gran dovizia di particolari ai magistrati ginevrini, invece del premio desiderato gli valsero però la prigione. La rivelazione della congiura fu accolta con il massimo interesse dallo stesso Calvino, che sperava di potersene valere per ottenere dai Bernesi la consegna dei fuorusciti, ma presentò l’impostore nella veste non meno squalificante della spia. Tradotto a Berna, il C. non vi riconobbe tra i fuorusciti che gli furono mostrati quello che egli aveva dichiarato di avere visto a Milano. La carta delle sue rivelazioni non poté essere così giocata dai Ginevrini che lo riportarono in patria e dopo qualche tempo lo processarono, giudicandolo colpevole di avere spiato le mura della città: il 12 settembre lo condannarono al bando sotto pena della vita. Abbandonata Ginevra, cadde però nelle mani dei Bernesi ai quali la sua cattura era stata richiesta dai fuorusciti, ma non solo da loro. La notizia delle sue rivelazioni era giunta infatti anche al duca d’Alba che incaricò l’ambasciatore imperiale presso i Cantoni svizzeri, Ascanio Marso, di smentirle recisamente e di chiedere una punizione esemplare per l’impostore. A Berna il C. negò di avere mai fatto il nome dell’Alba, ma non ammise di essere stato subornato da Calvino, come pretendevano i fuorusciti. Quando gli furono presentati i suoi costituti ginevrini fatti venire appositamente da Ginevra, si trasse d’impaccio accusando il nunzio di tramare a danno dei protestanti elvetici. Si offrì anzi di andarlo a trovare a Baden nell’Argovia, dove era stata convocata la Dieta dei sette Cantoni, per tentare di ottenere altre informazioni compromettenti. Fu creduto e inviato a Baden, ma dal nunzio ovviamente non riuscì a cavare alcuna notizia. Si presentò anche al Marso come agente del duca d’Alba e ne ottenne un po’ di denaro. I rappresentanti bernesi alla Dieta si erano lamentati intanto con quelli cattolici degli intrighi del nunzio con il risultato che il C. fu arrestato ancora una volta. Confessò di avere mentito e fu bandito da tutto il territorio elvetico. Lasciò la Svizzera con le pive nel sacco, senza avere tratto dalle sue imposture altro frutto che carcere, processi e condanne.
L’avventura svizzera del C. ebbe una certa risonanza negli ambienti riformati: se ne può cogliere infatti l’eco nelle lettere del pastore di Berna J. HaIler al riformatore zurighese Bullinger (cfr. Calvini Opera, XV, a cura di G. Baum-E. Cusitz-E. Reuss, Brunsvigae 1876, coll. 796, 808) e nella biografia diffamatoria dedicata a Calvino dal pastore Bolsec (cfr. Histoire de la vie, moeurs, actes, doctrine, constance et mort de Jean Calvin, a cura di L. F. Chastel, Lyon 1875, pp. 94 ss.). Secondo la versione della vicenda che essi accreditarono, tutta la storia della congiura ordita dalle potenze cattoliche contro Ginevra era semplice invenzione di Calvino che avrebbe indotto il C. a raccontarla per strappare ai Bernesi la consegna dei fuorusciti.
Nell’autunno ormai inoltrato del 1555 si diresse a Trento e vi trovò accoglienza alla corte del cardinale Cristoforo Madruzzo che si accingeva a subentrare all’Alba nel governo dello Stato di Milano. Doveva contare sull’amicizia di Luca Contile, allora al servizio del Madruzzo, per entrare al servizio di lui. Il timore di eventuali rappresaglie, sempre possibili anche dopo che il duca d’Alba si era allontanato da Milano, lo trattenne tuttavia nel Trentino ancora per alcuni mesi, tra l’inverno e la primavera del 1556. Nel corso di essi attese alla composizione di tre lettere politiche che riuscì a pubblicare, insieme ad una quarta a lui diretta dal Contile, nella celebre raccolta delle Lettere di XIII huomini illustri curata a suo tempo dall’Atanagi e ristampata di lì a poco con aggiunte dal Ruscelli (cfr. Lettere di diversi autori eccellenti, in Venetia, appresso Giordano Ziletti all’insegna della Stella, 1556, pp. 650 ss., 781-784,796-800).
Con esse il C. tentava di cancellare il suo passato milanese di spia per accreditarsi come consigliere politico munito del favore dei principi. Compito non facile dopo gli scacchi subiti in Svizzera e certamente privo di seri addentellati con la realtà. A questa grave deficienza egli supplì con le risorse della sua immaginazione e della sua cultura retorica. La prima lettera indirizzata ad Emanuele Filiberto svolge una serie di figure retoriche dalla parola catena, sfruttandone le diverse implicazioni semantiche per prospettare tra il principe e il cortigiano un rapporto di adescamento mascherato come rapporto di fedeltà. Il duca dona una catena d’oro e confida i segreti della battaglia di Renty al C. che in cambio gli assicura la celebrazione dell’impresa. Lo scambio è solo in apparenza fra equivalenti, perché all’oro e alle confidenze dell’uno l’altro corrisponde solo con parole. La seconda lettera, quella indirizzatagli dal Contile, intende esibire la malleveria di un cortigiano già affermato alla candidatura del giovane aspirante. Con la terza il C. si presenta ad un giovane prelato spagnolo, Roderico de Castro, come un influente consigliere nientemeno di Filippo II, al quale osa predire la sconfitta del duca d’Alba in Piemonte. Con la quarta comunica a Giacomo da Pisa, un oscuro capitano, di avere consigliato al re che voleva la pace con i Francesi di contentarsi di una tregua, quella che fu sottoscritta a Vaucelles nel febbraio del 1556. Intessute sul filo del desiderio, le lettere perseguono il risultato di dissolvere il ricordo angoscioso di una realtà mortificante nel gioco allusivo delle figure retoriche che costruisce per virtù di immaginazione una carriera brillante e un futuro assai promettente. Il primo destinatario di esse era certamente il C. stesso che scrivendole e pubblicandole nella prestigiosa raccolta veneziana poteva riaprire l’animo alla speranza. Un secondo obiettivo più concreto doveva consistere nel tentativo di presentarsi nella veste migliore per un impiego alla corte del Madruzzo.
Rotti gli indugi, verso la fine della primavera del 1556 si decise a raggiungere Milano, ma cadde nelle grinfie del nunzio Della Rovere che usava soggiornarvi per lunghi periodi e non gli aveva perdonato le gravi accuse rivoltegli in Svizzera. Lo fece arrestare e sottoporre ad interrogatorio: per salvarsi dal prevedibile castigo accennò ad una segreta trama ordita dagli Spagnoli contro Paolo IV col quale in quel momento erano venuti ad aperto conflitto. Era una fanfaluca ma gli servì: la speranza di cavargli particolari più precisi indusse il nunzio a desistere da propositi immediati di vendetta che restarono senza conseguenze per l’esaurirsi di lì a non molto del conflitto ispano-pontificio. Per quanto tempo sia rimasto nelle carceri milanesi non è stato possibile di accertare: di sicuro vi era ancora nell’ottobre del 1556, quando il nunzio scrisse a Roma per chiedere istruzioni sul suo conto. Ma non dovette tardare a uscirne, visto che i suoi carcerieri si mostravano impazienti di liberarsi da un prigioniero che li importunava continuamente con le sue lamentele e persino con tentativi di suicidio.
Le sue tracce comunque si perdono per i successivi tre anni. Certo è solo che nel 1557 pubblicò tre sonetti encomiastici in una raccolta romana (Rime di diversi in lode de‘ Signori Cavalieri di Malta, Roma, appresso Giulio Accolto, 1557, pagine non numerate).
Il primo in lode di don Garcia de Toledo, quello stesso che aveva conosciuto a Milano, il secondo di Febo Tolomei, il terzo dei cavalieri accorsi in difesa di Malta. Il tono è di stretta osservanza controriformistica e non manca la solita perorazione per la costituzione di una lega universale contro i Turchi. La raccoltina è dedicata a don Luis de Requesens, ambasciatore spagnolo a Roma. Questa circostanza e le lodi del Toledo lasciano presumere che il C. cercasse di riprendere contatto con gli ambienti spagnoli in Italia.
Qualche altro barlume arriva da una lettera di Annibal Caro a Girolamo Ruscelli: il 30 giugno 1558 il primo scrisse da Parma al secondo che gliene aveva chiesto notizie di non averlo mai visto. Sembra che il Ruscelli si fosse lamentato di una bricconata ai danni suoi e di un gentiluomo non identificato (cfr. A. Caro. Lettere familiari, a cura di A. Greco, II, Firenze 1959, p. 295).
Notizie più abbondanti e diffuse riaffiorano solo dal soggiorno in Sicilia, dove il C. restò per circa un decennio.
Quando vi sia giunto non è noto; sicuramente prima del luglio del 1559, allorché risiedeva a Messina con uno stipendio del viceré duca di Medinaceli, del quale passava per favorito.
Come tale compare infatti negli atti della visita eseguita da Antonio Agustin a carico dello strategoto di Messina Francesco Moncada conte di Adernò. Convocato il 3 luglio, testimoniò di aver saputo da un amico del conte, il barone di Capodarso, che due funzionari usavano passargli notizie riservate circa un processo di suo interesse dibattuto davanti al Sacro Regio Consiglio. Tale confidenza era stata da lui ricevuta per incarico di altri due funzionari, il maestro giustiziere marchese di Licodia e il giudice della Gran Corte T. de Medicis, ai quali il Capodarso aveva detto di volerne rivelare i nomi solo al C., forestiero ed estraneo all’ambiente siciliano, ma confidente del viceré e in grado di dargliene diretta ed esclusiva notizia. Cosa che egli dovette fare, visto che si rifiutò di comunicare i nomi al Licodia e al De Medicis, come ebbe a deporre quest’ultimo al visitatore, al quale fece anche un ritratto di lui piuttosto favorevole (“preguntado assimismo de las calidades vida y fama del dicho don Cipion de Castro, dixo que ha poco tiempo que lo conoce y ha hablado con él quatro o cinco vezes y lo reputa por persona noble y letrado y de buena vida y no hay de dezir cosa en contrario”; cfr. Archivo general de Simancas, Visitas de Italia, leg. 151, f. 68v).
L’anno seguente il suo nome appare in un altro processo, ma questa volta come attore non più semplice testimone. A sua istanza infatti due funzionari dell’amministrazione giudiziaria convocarono un milanese, tale Tiburzio Caravaggio, per interrogarlo su certe sue deposizioni rilasciate davanti al Tribunale del S. Offizio. Esse lo dovevano compromettere seriamente se, come vuole l’accusa dell’inquisitore spagnolo Juan Orozco de Arce, usò delle sue buone relazioni con i funzionari regi e dello stesso favore del viceré per farle ritrattare. Ottenuta la ritrattazione, il Medinaceli chiese all’inquisitore di discolpare il C., provocandone invece una violenta lettera di protesta in data dell’11 ag. 1560. I due funzionari che avevano subornato il testimone andavano puniti severamente perché favorivano “a los erexes, intimidando a los que saben alguna cosa contra la fee para que no hosen venir a decirlo”. Il viceré doveva affrettarsi a fare arrestare il C., delle cui “buenas calidades” avrebbe provveduto il S. Offizio a mandare la lista, con l’augurio di “verle fuera deste reyno y de todos los otros” di sua maestà cattolica. Evidentemente il Caravaggio, che doveva aver conosciuto il C. a Milano, l’aveva denunciato all’inquisitore, il quale deve averlo accusato anche di eresia (le professioni di fede riformata rilasciate a Ginevra e Berna non erano certo ignote a Milano), ma senza crederci troppo, se si limitava a minacciare la sola espulsione dai domini spagnoli. Quali conseguenze abbiano avuto queste minacce non è noto, risulta però che nel 1562 il C. vestiva abiti ecclesiastici e non più quelli di cavaliere che portava a Messina tre anni prima. In qualità di ecclesiastico compare infatti in una lista di pretendenti alla pingue abbazia della Magione di Palermo, che però non gli fu assegnata. Il suo nome figura anche in una lista successiva del 20 dicembre dello stesso anno che riguardava la richiesta di semplici pensioni. Il ritorno allo stato ecclesiastico dovette essere lo scotto pagato al S. Offizio che sicuramente provò la sua apostasia dall’Ordine degli eremitani di S. Agostino e gli impose di riprendere l’abito, ma non dovette comminargli altre più severe punizioni, se due anni dopo poteva osare di candidarsi per una delle più ricche abbazie dell’isola. L’accusa di eresia cadde cioè nel nulla, come la minaccia di espulsione da tutti i domini spagnoli.
La sua candidatura a benefici e pensioni è altresì indizio sicuro che il favore del vicerè non gli era venuto ancora a mancare nel 1562. Sembra però che sia caduto in disgrazia l’anno successivo per ragioni ancora oscure. A Palermo comunque non gli mancavano i nemici, il più acerrimo dei quali era un funzionario e uomo di lettere, G. G. Bonincontro, che nel 1563 gli indirizzò un sonetto rovente di odio e di accuse infamanti: bastardo, impostore, spia, negromante, alchimista, falsario, tosatore e spacciatore di moneta falsa. La documentazione disponibile non consente di provare la veridicità di tutte le accuse, delle quali solo alcune appaiono fondate. Il Bonincontro si mostra però bene informato di certi trascorsi del C., come delle sue ambizioni intellettuali: sa che era nativo di Policastro, che in religione aveva assunto il nome di Cornelio (prova ulteriore che in Sicilia era ormai noto il suo passato di frate agostiniano), che amava cambiare mestiere di frequente e alternava la tonaca all’abito talare e a quello di gentiluomo, che scriveva “d’amor versi” e “historie… in prosa”. Il ritratto dell’avventuriero è completo, mancano solo le ragioni dell’odio furente che gli suggeriva l’augurio di vederlo pendere presto dalla forca.
Secondo certi documenti posseduti nel secolo XVII dall’erudito palermitano V. Auria, il C. nel 1563 si sarebbe trasferito a Milano “stando male in arnese” per rientrare però l’anno dopo in Sicilia e trovarvi impiego a Castelbuono presso l’amministrazione feudale della marchesa di Geraci, consorte di quel duca di Terranova che sarà fra i principali destinatari dei suoi consigli politici. Non dovette tardare molto tuttavia a ritrovare la strada della corte vicereale, se è vero quanto seppe nel 1578 l’ambasciatore spagnolo a Roma, Juan de Zuñiga, che servì cioè don Garcia de Toledo. Dal nuovo viceré, che governò in Sicilia dal 1565 al 1568, sarebbe stato inviato una volta in missione alla corte di Madrid. Lo stesso C. si vantò inoltre più tardi di averlo servito come ingegnere progettando la costruzione del molo di Palermo. Ma di tutte queste notizie non si ha alcuna conferma. Il sospetto di millanteria è forte, anche per quel che riguarda la costruzione del porto di Trapani, attribuitogli dal residente veneto P. Ragazzoni. Certo è solo che il C. indirizzò in questi anni un secondo sonetto al Toledo per celebrarne le opere pubbliche intraprese a Palermo.
Altre notizie non meno incerte affiorano da una lettera, indirizzata per finzione letteraria il 1º genn. 1568 al vescovo di Cefalù, Antonio Faraone, dal Bonincontro, detenuto almeno dal 1566 nelle carceri dell’Inquisizione sotto l’accusa di eresia luterana. Si tratta di un componimento satirico di stile bernesco che alterna l’italiano al latino in un linguaggio fortemente metaforizzato e fitto di allusioni spesso piuttosto difficili da decifrare. Il Faraone ha aperto a Cefalù un’osteria, ove convengono “e per destino e per elettione” “omnes mancantes de brachio seculari demoniali et spirituali et insino” al C. bollato di nuovo delle accuse già note. Se l’osteria è da identificare con una sezione del S. Offizio, il C. la avrebbe bazzicata come familiare e delatore. Egli in effetti già dal 1564 risiedeva a Castelbuono a pochi chilometri da Cefalù, dove secondo l’Auria si sarebbe anche trasferito e sempre al tempo del Faraone. Resta difficile tuttavia in mancanza di una documentazione più probante stabilire quale fondamento avesse l’accusa del Bonincontro. Nessun valore può attribuirsi in questo senso al sonetto dedicatogli, come maestro in Parnaso, da A. Giuffredi, letterato noto per il suo conformismo di stretta osservanza controriformistica, che nel 1578 diventerà notaio del S. Offizio. Il C., favorito dai viceré e ben accreditato con la nobiltà, aveva a Palermo una veste di sicura ufficialità, tanto più in sede letteraria, sufficiente a spiegare da sola la pubblicazione nel 1571 del sonetto. I suoi rapporti con l’osteria cefalutana del Faraone restano quindi ancora oscuri, come quelli che lo legavano con il filo dell’odio all’eretico siciliano.
Ancora al S. Offizio riconduce un gruppetto di documenti spagnoli estratti dagli atti della visita iniziata nel 1569 da Juan de Quintanilla contro l’inquisitore Bezerra. Questi aveva malignato sul conto dell’inquisitore generale di Spagna, Diego de Espinosa, deplorandone la nomina a cardinale nel corso di un pranzo offerto per la Pasqua del 1568 a Monreale dal cardinale Alessandro Farnese che ne era arcivescovo. Erano presenti vari ufficiali del S. Offizio che denunziarono Bezerra a Madrid. Qualche giorno dopo due di essi tornarono a Monreale nella residenza arcivescovile e vi trovarono il C. al quale tentarono di strappare indiscrezioni compromettenti del cardinale su Bezerra. Da lui, che sembrava in confidenza con il Farnese, seppero però solo che diceva bene dell’inquisitore e lo riteneva, per la sua indipendenza di giudizio, addirittura degno del cappello cardinalizio. Successivamente lo rividero in una chiesa (quella dello Spirito Santo) dei dintorni di Palermo e gli sentirono ribadire che il cardinale giudicava Bezerra “hombre libre y bueno para Roma”,proprio perché osava esprimere pubblicamente critiche pungenti a carico del suo superiore. I due ufficiali non sembravano conoscere in precedenza il C. che indicarono piuttosto laconicamente al visitatore come “un clerigo Ilamado don Cipion de Castro”. Per testimonianza di vari letterati siciliani, il C. aveva a Palermo fama di facile verseggiatore e con tutta probabilità agli anni del soggiorno siciliano si deve ricondurre la gran parte delle rime che compongono il suo esiguo canzoniere (quasi tutte le rime superstiti, edite e inedite, sono state raccolte e pubblicate assai scorrettamente da M. Cerini, Le liriche di S. di C., in Arch. stor. per la Sicilia, IV-V[1938-1939], pp. 147-181). L’intenzione cortigiana di alcune di esse è evidente: due sonetti celebrano rispettivamente le imprese di don Garcia de Toledo e di Gian Andrea Doria. Una Canzone in morte di Beatrice d’Avalos, pubblicata a Genova nel 1582 da Cristoforo Zabata (Della scelta di rime di diversi eccellenti autori di nuovo data in luce, I, pp. 147-154 e poi ancora a Bergamo da Comin Ventura nel 1587), secondo l’intitolazione di un codice magliabechiano fu scritta “in gratia del sig. Andrea Doria” ed a lui come committente sembrano riferirsi nella chiusa il richiamo ad un cavaliere “d’armi satio / e d’illustri trofei ben cinto e carco”,che la canzone vedrà “sovra il famoso scoglio / che ‘l ligustico mar percote e inonda”. Notizie sulle circostanze della composizione fornisce un gruppetto di lettere indirizzate al C. dal Doria (una da Civitavecchia il 13 luglio 1568 e tre da Genova il 15 ott., 10 dic. 1568 e 11 febbr. 1569, in Archivio Doria Pamphili di Roma, 69-30-2, 69-31-1, 6932-1). La prima ringrazia per l’invio di due sonetti, altre due per la canzone che il Doria trova di lettura assai difficile, tanto da richiedere l’ausilio di un commentario dello stesso autore (“Aspetto con desiderio grande il comento della canzone per godere di lei a pieno, che quando più la studio et vi assottiglio l’ingegno tanto maggior secreti vi trovo serrati dentro et rende maggior odore dell’alta dottrina et del bello ingegno di V. S.”). Le difficoltà lamentate dal committente erano il tributo imposto dalla moda della poesia concettista allora in voga, alla quale si attengono altri componimenti del C. ugualmente fitti di rimandi metafisici, di oscure allusioni a dolorosi eventi personali, di tortuose argomentazioni teologiche. Né risulta meno fastidiosa la lettura della Favola di Endimione (ebbe anch’essa l’onore di una stampa cinquecentesca in Rime di diversi autori non più vedute, nuovamente raccolte e date in luce, a cura di Cristoforo Zabata, Venezia 1575), alla quale l’adozione del registro mitologico-pastorale non conferisce alcuna leggerezza. Oltre che come rimatore, il C. era apprezzatissimo come scrittore di imprese. Secondo una tradizione orale ancor viva nel secolo XVII e raccolta dall’Auria, la sua abilità in questo genere di composizioni lo faceva ricercare dai nobili palermitani in occasione di giostre e tornei. Che questa fama non fosse usurpata è attestato dalla circostanza che anche il Doria si rivolse a lui per un torneo da tenere a Genova nell’autunno del 1568. Vantando grande esperienza “in queste inventioni” e addirittura l’onore di avere organizzato nel lontano 1555 “per comandamento” di Filippo II “le feste d’Inghilterra” della durata di ben “cinque giornate”,il C. gli mandò lo schema di un torneo diviso in tre giornate di giochi (vedilo manoscritto in Biblioteca Ambrosiana, cod. D. 191 inf., ff. 70r-80v). Si tratta di un programma di feste che sembra celebrare gli antichi riti della cavalleria, puntando però sul gioco dei significanti a tutto scapito di quello dei significati. L’interesse dell’autore si concentra infatti sull’eleganza dei vestiti e delle armi, sull’armonia compassata dei movimenti e dei comportamenti che negano e vanificano, l’apparenza stessa del torneo e lo riducono a uno spettacolo variopinto e multiforme che sa di balletto. Non vi manca in effetti una danza, eseguita al suono di “una soavissima musica ben concertata d’instrumenti et voci”,da cavalieri armati, ma “senza movimento di salti forzati” per “riuscir maestosa e grave”. Tanto più indicativa delle intenzioni dell’autore appare tuttavia la raccomandazione di scegliere per i combattimenti “persone che sappiano farlo senza… infocarsi, né venire a prese, né star su l’ostinato al distaccarsi, ma combattendo con leggiadro artificio che nasca dalla cognitione dell’arte… rappresentino una fola di torneo”.
Probabilmente per incarico dello stesso Doria, il C. compose una biografia encomiastica dello zio di lui, il leggendario ammiraglio di Carlo V(De vita et rebus gestis Andreae Doriae principis Melphitani, in Bibl. Apost. Vaticana, Boncompagni F 32,cc. 246r-265v).
Le lettere del Doria attestano che in Sicilia il C. godeva ancora di una posizione di notevole prestigio, tanto da assicurargli la protezione dello stesso Doria. Con questo doveva intrattenere del resto anche rapporti confidenziali di altra natura, se l’ammiraglio genovese lo ringraziò una volta di un “avertimento” del quale si era “già servito ove è stato bisogno”. “Continove lei – concludeva – di scrivermi con ogni occasione quel più che occorrerà et facci il solito buon offitio che le raccomandai, tanto che in nessuna cosa mi può far maggior piacere che in questa”. A Palermo il C. godé sicuramente in questi anni anche del favore del viceré marchese di Pescara al quale il Doria era legatissimo. Risulta infatti che per lui compilò in data imprecisata un elenco di nobili siciliani degni di entrare in un ordine cavalleresco che il Pescara pensava di istituire sotto il nome di Santa Cristina. Alla morte del viceré, nel 1571, deve avere lasciato la Sicilia in circostanze che ancora restano oscure.
Dalla Sicilia si trasferì con tutta probabilità a Napoli, dove disse una volta nel 1577 di avere servito “pochi anni sono” come ingegnere don Giovanni d’Austria, che in effetti vi risiedette a lungo dopo Lepanto. A Napoli incappò di nuovo nelle maglie dell’Inquisizione e questa volta sembra che abbia pagato uno scotto piuttosto salato. Secondo le informazioni dello Zuñiga fu detenuto nelle carceri arcivescovili e sottoposto a tortura per delitti non precisati. A questo periodo di detenzione, che cadde sicuramente allora, deve riferirsi l’annotazione autografa apposta in un codice magliabechiano dell’opera Delli fondamenti dello Stato:”Il resto mi fu tolto con gl’altri libri nella mia carceratione de tre anni et mesi sette”.
Le ricerche nell’Archivio storico diocesano di Napoli non hanno dato purtroppo risultati, ma qualche spiraglio proviene dal codice 1561 della Biblioteca Casanatense che contiene uno scritto controversistico del C. (De oecumenico episcopo contra Ioannem Charionem et confessionem Germanicam), dedicato alla confutazione di un passo del Chronicon del Carion che contestava il primato pontificio. La polemica è condotta a suon di citazioni patristiche e con il tono di esagitata virulenza controriformistica di chi vuol esibire un attestato convincente di sicura ortodossia. In effetti il codice proviene dai fondi del S. Offizio e secondo un’annotazione di altra mano fu presentato il 12 dic. 1574 a Napoli per mezzo di un reverendo del quale non si legge il nome. Dall’argomento si può desumere che al C. fosse stato imputato il possesso di una copia del Chronicon, libretto assai diffuso allora in Italia, dove ebbe almeno due edizioni veneziane, una in traduzione italiana (1548)e una in traduzione latina (1555). In questo breve compendio di storia universale nel quale aveva avuto parte determinante Melantone, il punto di vista protestante era camuffato infatti con tanta abilità da permettergli la più ampia circolazione nei paesi cattolici, fino alla condanna sancita dall’Indice deilibri proibiti del 1559.È evidente che il C. negò di possederlo per ragioni religiose e magari addusse i suoi interessi politici di scrittore di “historie”. A riprova della sua buona fede compose lo scritto controversistico che non dovette giovargli gran che.Da Napoli infatti passò a Roma, dove il S. Offizio sembrava avere avocato a sé il processo. Ad un altro agente ferrarese il C. disse nel maggio del 1577 di essere “venuto in Roma per causa d’inquisizione”, da un anno circa (cfr. Archivio di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Ambasciatori a Roma, b. 881, disp. del 22 maggio 1577). In effetti la sentenza dell’Inquisizione romana fu pronunciata il 6 giugno 1576: le accuse erano, oltre quella solita di apostasia dall’Ordine agostiniano in spregio alle censure ecclesiastiche, di avere contestato l’autorità del pontefice identificato con l’Anticristo, di avere dichiarato la scomunica semplice invenzione umana, inutile la confessione dei peccati, di nessun valore le indulgenze, il culto dei santi, delle immagini e delle reliquie, l’osservanza delle festività religiose e delle prescrizioni di digiuno, inesistente il purgatorio. Seguiva l’imputazione specifica di negromanzia e la condanna a riassumere l’abito agostiniano, ad abiurare tutti gli errori imputatigli, a scontare tre anni di pena nelle carceri dell’Inquisizione. Le prove a suo carico non dovettero risultare del tutto esaurienti se fu giudicato solo “vehementer suspectum” di eresia e condannato ad una pena abbastanza mite che gli fu commutata di lì a poco in residenza coatta nel convento agostiniano di S. Maria del Popolo. Il 27 luglio comunque rilasciò atto formale di abiura, ma solo “ad tollendam omnem suspicionem”,perché egli si era dichiarato sempre innocente e tale si proclamava ancora, non senza accennare fugacemente alla responsabilità del delatore che l’aveva denunciato al S. Offizio.
Di tutte le incarnazioni del C. questa di eretico e aspirante martire della libertà di pensiero è certo la più enigmatica e sconcertante. Di atteggiamenti filoereticali non c’è il minimo sentore infatti nella sua vasta produzione di poligrafo che ridonda semmai di continue professioni di rigorosa ortodossia. Si tratta però quasi sempre di scritti di occasione, destinati a committenti di sicura ufficialità controriformata, nei confronti dei quali il più assoluto conformismo era di rigore. Un tono diverso si può forse riscontrare in certi versi sciolti non datati (cfr. Cerini, pp. 178-181) che ripercorrono il dramma cristiano della caduta e della redenzione, con qualche accentuazione in chiave ermetica. Sono però sfumature piuttosto vaghe che non scalfiscono l’impianto rigidamente controriforinistico, del componimento e avallano semmai con il loro generico sfondo ermetico l’accusa di negromanzia che ricorre del resto già nel sonetto del Bonincontro del 1563. La biblioteca del convento napoletano di S. Giovanni a Carbonara, dove il C. studiò in gioventù, rigurgitava di testi ermetici ed è probabile che egli ne abbia risentito una qualche duratura influenza. Altre ipotesi allo stato delle nostre conoscenze appaiono assai poco plausibili: di un serio interesse religioso, comunque orientato, non si può proprio parlare. Le stesse accuse dell’Inquisizione si mantengono del resto in un ambito puramente istituzionale ed escludono un impegno diverso, più sensibile alle vere e proprie questioni di fede. La polemica religiosa del C. sembra esaurirsi in una negazione della esteriorità che non appare concepita in funzione dell’affermazione della interiorità, del vero centro propulsore cioè di ogni autentica problematica religiosa e di quella protestante in particolare. La critica di certe istituzioni della Chiesa cattolica, seppur chiaramente desunta dalla polemica riformata, sembra rientrare in conclusione in quel gioco ambiguo delle vanità che caratterizza l’esercizio retorico del Castro.
In quali circostanze il C. abbia iniziato a Roma quella vertiginosa carriera di consigliere politico che gli dischiuse le porte dei palazzi apostolici e lo rese per anniindispensabile a Gregorio XIII e a numerosi cardinali è l’ultimo dei tanti misteri di questa biografia di avventuriero rimasti ancora insoluti.
Secondo una tarda compilazione secentesca (G. Saracini, Notizie istoriche della cittàdi Ancona, Roma 1675, p. 368), egli avrebbe ispezionato le fortificazioni di Ancona per conto del papa nel 1574. La notizia sembrò perfettamente attendibile al Giardina che credette di poterla convalidare con l’ausilio di una lettera inedita (Bibl. Apost. Vat., Boncompagni D 5,cc. 326r-329v) non datata e non firmata ma indirizzata a Giacomo Boncompagni, il figlio di Gregorio XIII che del C. fu il principale cliente e patrono romano. L’autore si presenta come un vecchio soldato in disgrazia che disquisisce di cose militari con gran disinvoltura. La maschera del cavaliere esperto di armi e di fortificazioni era certamente, tra quelle predilette dal C. ed è possibile che l’abbia indossata anche a Roma, per quanto riesca difficile ammetterlo per l’ex frate alle prese col S. Offizio. Ma forse la sua identità non era stata scoperta a Napoli e restò sconosciuta per qualche tempo anche a Roma: sta di fatto che nel suo scritto controversistico del 1574 egli non figura mai come uomo di chiesa. Il militare, che nella lettera al Boncompagni, databile ottobre 1575, dichiara di essere a Roma da venti mesi (cioè dal febbraio del 1574), e si lamenta della sorte avversa (“mercé di chi n’è causa”), potrebbe anche essere stato il C. convocatovi dall’Inquisizione. Tanto più che egli nel 1579 si vantò con gli agenti ferraresi di avere sostenuto la candidatura del duca Alfonso II “in un discorso che scrisse a S. Santità, mentre si stava su l’ultima elettione del re di Polonia”,cioè nell’autunno del 1575 (dr. Archivio di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Ambasciatori a Roma, busta 891, dispaccio del 17 apr. 1579). La lettera tuttavia non offre alcun elemento sicuro per l’attribuzione. Ugualmente incerta è la notizia, riferita dall’Amiani (Memorie storiche di Fano, II, Roma 1751, p. 216), di una visita alle fortificazioni di Fano nel 1576.
Rapporti piuttosto stretti col Boncompagni sono documentati con sicurezza soltanto a partire dal 28 marzo 1577, data di una lettera autografa a lui diretta (Biblioteca Apostolica Vaticana, Boncompagni D 10, cc. 253r-256r), nella quale il C. mostra di essere già entrato pienamente nel ruolo di suo intimo e fidato consigliere. Con il tramite del figlio, la fama delle sue arti dovette giungere presto alle orecchie di Gregorio XIII che con tutta probabilità fu l’onnipotente artefice del suo trasferimento nel convento di S. Maria del Popolo, dove il figlio usava già andarlo a trovare di frequente. Era entrato comunque nelle grazie del padre e del figlio già da qualche tempo, se nel maggio del 1577 il papa poteva affidargli un incarico di grande responsabilità, quello di arbitro nella controversia del Reno che opponeva ai Bolognesi, sostenuti dal loro concittadino vicario di Cristo, i Ferraresi. Il C. seppe corrispondere pienamente alla fiducia accordatagli dal papa, opponendo una tenace eroica resistenza alle molteplici insidie dei Ferraresi. Provvisto di poche e imparaticce cognizioni di idraulica, egli giocò con astuzia la carta della retorica per favorire il piano puramente dilatorio di Gregorio XIII, finché un pesante intervento di Francesco Patrizi, assoldato dal duca Alfonso II d’Este, non gli impose di uscire dalla scena. La relazione che egli indirizzò al papa nel 1579 gli valse grandi onori a Bologna che gli destinò il sostanzioso donativo di 200 scudi.
Ma ebbe anche insospettabili echi in sede scientifica: fu ricordata infatti con lode dall’eminente idrologo Domenico Guglielmini e data alle stampe una seconda volta persino nel sec. XIX (cfr. Relatione e parere di don S. di C. a papa Gregorio XIII, in Raccolta di varie scritture e notitie concernenti l‘interesse della remotione del Reno dalle valli, Bologna 1682, pp. 99-107; la stessa in Raccolta d‘autori italiani che trattano del moto dell‘acque, IX, Bologna 1824, pp. 139-151.I manoscritti più importanti, che presentano un testo diverso da quello pubblicato, sono in Bibl. Apost. Vat., Boncompagni D 9, cc. 46r-73r, 78r-103r, 116r-140r, 152r-183v,196r-209r. Ivi anche il testo della replica alla relazione di F. Panciotto, cc. 186r-188v).
Per incarico del papa il C. si occupò di varie altre questioni di ingegneria talvolta con ricognizione personale dei luoghi, come provano le cinque relazioni non datate che gli indirizzò in tempi diversi (attualmente conservate in Biblioteca Apostolica Vaticana, Boncompagni D 9): sul porto di Civitavecchia e sulla costruzione di un canale che lo collegasse al Tevere (cc. 235r-238r, databile 1578; cfr. Arch. di Stato di Bologna, Lettere dell‘ambasciatore agli assunti de confini, dispaccio del 19 febbr. 1578); su vari progetti di lavori pubblici nella Marca di Ancona (cc. 28r-34v, 38r-39v,40r-44v: 1579; cfr. Bibl. Ap. Vatic. Urb. lat. 1047, c. 175v); sul porto di Traiano e un canale di collegamento al Tevere (due relaz., cc. 225r-230r, 231r-232v, 1582; cfr. Urb. lat. 1050, c. 87r); sul prosciugamento delle Paludi pontine (cc. 10r-15v, 18r-21v, 22r-26v). Ad un incarico della Camera apostolica si riferisce infine una lettera del 23 marzo 1580 (cc. 239r-241v). Il valore di queste relazioni è nullo: il C. non aveva competenze tecniche né preparazione scientifica, sapeva orecchiare con scaltrezza e compromettersi il meno possibile. Un gioco che gli riusciva abbastanza facile in un’epoca ancora sostanzialmente priva di validi fondamenti scientifici e dominata dal pressappochismo dei praticoni.
Da questi scritti traspaiono però più di una volta le vere ragioni del favore pontificio: Gregorio XIII, come il figlio Giacomo, era interessato soprattutto ai consigli politici del C., rispetto ai quali l’attività di idraulico ed ingegnere, del tutto neutrale e niente affatto compromettente sul piano dei valori, serviva da comodo e utile paravento. Egli giudicava evidentemente poco compatibile con la sua dignità di vicario di Cristo la consulenza di un avventuriero senza scrupoli, incorso per giunta nelle punizioni del S. Uffizio, tanto più inammissibile nella sede politica aperta alle suggestioni diaboliche del machiavellismo. La discreta cortina di riserbo che doveva proteggere la frequentazione con il C. non impedì tuttavia che certi diplomatici accreditati presso la corte pontificia ne fossero informati. Gli agenti ferraresi ed ancor più quelli spagnoli sapevano bene quanto pesasse la sua influenza alla corte di Roma: i consigli politici che il C. usava indirizzare a Giacomo Boncompagni avevano spesso come destinatario effettivo Gregorio XIII.
Ne scrisse sicuramente molti, ma solo ben pochi risultano di sicura identificazione e di qualcun altro si ha appena qualche notizia. Gli agenti ferraresi riferirono ad esempio nel 1579 di un discorso per il papa composto nell’autunno del 1575 sull’elezione del re di Polonia e di una scrittura coeva “che conteneva essempli de maggiori eccessi commessi contra inquisitori dal duca di Terranova et da Giovan di Vega viceré di Sicilia, uno de quali haveva incarcerato l’inquisitore, et da Don Garcia de Toledo in Cathalogna” (cfr. Archivio di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Ambasciatori a Roma, busta 901,dispaccio del 14 nov. 1579). In genere si trattava di scritti piuttosto brevi, privi di destinatario e di firma e spesso anche di data, concepiti per il consumo quotidiano delle cancellerie e destinati quindi a sparire in breve tempo nel gran mare di scritture che le sommergeva. I pochi consigli che emergono dall’anonimato al quale lo stesso autore li votava permettono comunque di stabilire che obbedivano a regole precise di composizione: massima indifferenza per la realtà effettuale e perfetta adesione formale alla dottrina e alla prassi della ragion di Stato. Per ogni caso che la politica del tempo proponeva, la soluzione era sempre pronta e bastava reperirla negli scritti di Machiavelli e in quelli dei suoi innumerevoli seguaci. Secondo i diplomatici spagnoli il C. scrisse per Gregorio XIII due pareri sulla questione della rivolta dei Paesi Bassi contro la Spagna che aveva, com’è noto, importanti risvolti religiosi. E precisamente sulla chiamata dell’arciduca Mattia d’Asburgo come governatore delle province ribelli (la minuta autografa e tre copie in Boncompagni D 10,cc. 329r-342v) e sull’intervento del duca d’Alençon in aiuto dei ribelli (una copia con correzioni autografe ibid.,cc. 359r-363v). Il primo è datato 3 nov. 1577, il secondo è databile giugno-luglio 1578. Entrambi prescindono largamente dalla situazione politica effettiva che il C. del resto conosceva assai mediocremente e solo sulla base dei documenti ufficiali emanati dalle parti in causa. Il tono è però risolutamente asseverativo, come il giudizio politico e le previsioni, esemplati direttamente sul paradigma machiavellistico del principe nuovo. La meccanica razionalistica della politica dell’interesse non lascia adito al dubbio: i due principi chiamati dai rivoltosi, sia l’Asburgo che il Valois, non hanno alcuna possibilità di riuscita e sono destinati all’inevitabile fallimento. A questa conclusione arriverà fatalmente la rivolta stessa dei Paesi Bassi, solo che il re di Spagna si decida a schiacciarla con tutto il peso della sua potenza militare, esattamente come richiedeva il più noto e accettato precetto del machiavellismo, quello imperniato sulla figura del leone.
Sulla potenza del re cattolico il C. si diffuse nei due scritti con un’insistenza che appare chiaramente sospetta: se dietro il destinatario ufficiale (Giacomo Boncompagni) si celava un destinatario ufficioso (Gregorio XIII), dietro di lui se ne indovina facilmente ancora un terzo: Filippo II. A lui in effetti miravano i due scritti come a destinatario privilegiato, al servizio del quale il consigliere segreto del papa ambiva di entrare sin dall’ormai lontana giovinezza. Le trattative furono condotte da un diplomatico spagnolo grande estimatore del C., Francisco de Vera y Aragón, che inviò al re i due consigli, magnificandone la perfetta rispondenza alla realtà della rivolta, l’acutezza dell’analisi delle forze in campo, l’esattezza delle previsioni che trovavano negli eventi in corso quotidiana conferma. Filippo però non si lasciò convincere a servirsi di uno sfratato incorso nelle punizioni del S. Uffizio. E non valse l’esibizione della sentenza di condanna e dell’abiura che il C. gli fece pervenire per provare l’inconsistenza delle accuse di eresia e la sua piena riconciliazione con la Chiesa di Roma. Gli indirizzò anche una lettera di consigli sul modo migliore di riportare alla ragione i ribelli dei Paesi Bassi in data 13 marzo 1578 (due copie non firmate ma di sicura attribuzione si conservano in Boncompagni D 10, cc. 343r-346r), ma senza ricevere alcuna risposta.
Se non gli riuscì di adescare il re, conservò però per lunghi anni il favore di un suo ministro, il siciliano duca di Terranova, per il quale approntò almeno tre consigli in occasioni diverse. Nell’autunno del 1578 sulla questione fiamminga che il Terranova doveva trattare ai colloqui di Colonia, come ambasciatore del re cattolico (varie copie con correzioni autografe in Boncompagni D 10, cc- 368r-408r; una lettera dell’ottobre 1578 in originale firmato alla c. 367rv promette il consiglio a scadenza ravvicinata al duca che gliel’aveva chiesto con lettera da Madrid l’11 ag. 1578). In esso si avverte un tono piuttosto polemico verso la politica esitante e dilatoria di Filippo: la ripulsa del re alle sue profferte di servizi evidentemente era già cosa sicura per lui. Visto che l’impiego massiccio della forza, il solo che potesse assicurare risultati rapidi e decisivi, riusciva tanto difficile alla Spagna, occorreva ripiegare sulle trattative e giocare la carta dell’astuzia. Dalla figura del leone si passa così a quella altrettanto ovvia della volpe. Particolarmente indicativo dei procedimenti adottati dal C. è l’esempio che egli adduce: la ricattolicizzazione forzata dell’Inghilterra perseguita dalla regina Maria con i ben noti effetti catastrofici per le sorti del cattolicesimo inglese. Ma i consigli del C., così rigorosamente rispettosi del codice della ragion di Stato, per i politici del tempo erano oro colato. Tanto che il duca di Terranova si rivolse di nuovo a lui nel 1582 per avere lumi sul governo dello Stato di Milano del quale era stato investito. La relazione che gli mandò (varie copie con frammenti e correzioni autografi in Boncompagni D 10, cc. 272r-318r) è rivolta tutta verso il passato del suo soggiorno milanese, al tempo di Ferrante Gonzaga, e s’impernia sulle malefatte dell’onnipotente segretario di lui, Giovanni Maona, che gli costarono la carica e la stessa grazia di Carlo V. Bastava che il Terranova evitasse di circondarsi di cosiffatti segretari per mantenersi in sella fino alla scadenza del mandato. Sempre per il Terranova il C. scrisse una terza istruzione in una data che resta ancora sconosciuta (l’unica copia, non datata, di questa istruzione si conserva nella Biblioteca nazionale di Parigi, Mss. It., 765, cc. 233r-248r). L’occasione fu con tutta probabilità la candidatura del duca come ambasciatore del re cattolico a Roma, della quale però non c’è traccia nella documentazione disponibile. Probabilmente se ne ventilò la possibilità alla corte di Madrid tra la fine del 1580 e l’inizio del 1581, quando il Terranova era rientrato dall’ambasceria in Germania e restava in attesa di un nuovo incarico, che fu poi quello di viceré di Catalogna. Il C. dovette scriverla comunque su richiesta del duca, come le altre due; certo è che essa costituisce uno dei suoi scritti più importanti, perché, lasciando cadere la convenzione abusata del codice della ragion di Stato, abbozza un ritratto assai acuto della corte di Roma, che giudica una caricatura grottesca del nulla su cui si fonda ogni potere.
Forse per lo stesso duca di Terranova il C. scrisse infine una relazione generale sui Paesi Bassi, che alcuni manoscritti datano al 1578 (l’autografo in Boncompagni D 10,cc. 433r-442v). Essa ha carattere descrittivo e dipende largamente dalla nota relazione di Ludovico Guicciardini. Fra i suoi clienti il C. vantava esponenti di prima fila della nobiltà romana, come Paolo Giordano Orsini, che, dovendo inviare alla corte di Madrid un congiunto, Latino Orsini, a chiedere per lui una alta carica nell’esercito spagnolo, gli commissionò un’istruzione. Il C. la stese con una aderenza puntuale al cerimoniale della corte spagnola (ne esistono diverse copie, una in Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 5362, cc. 168r-171r). Per un altro eminente patrizio romano, Marco Antonio Colonna, si ritenne che egli avesse scritto una relazione sul governo di Sicilia, che è il suo capolavoro (l’autografo in Boncompagni D 10, cc. 192r-238v). La data più probabile della composizione è il 1577,ma è dubbio che il Colonna gliel’abbia commissionata. L’opera comunque persegue obiettivi ben diversi da quelli soliti di stretta osservanza cortigiana: tra le pieghe del discorso, che sembra aderire con la consueta disinvoltura al codice della ragion di Stato, lo scrittore gioca infatti la carta della parodia e s’impegna in un lavoro di deformazione caricaturale del discorso politico che approda ad importanti risultati di disgregazione radicale del suo ordine. Una sorta di perfetto contro-altare di quest’opera è un trattato di politica al quale il C. lavorò per tanta parte della sua vita, con l’ambizioso proposito di approntare quella nuova sintesi della dottrina del machiavellismo in una cornice cattolica che i tempi reclamavano. Una tale impresa, che farà la gloria imperitura del gesuita Botero, richiedeva però ben altra capacità di adesione all’ufficialità controriformata. Al C., che l’accettò sempre solo come un riparo dai pesanti castighi ai quali altrimenti si sapeva esposto, non riuscì di portarla a termine. Il gioco delle finzioni non arrivò a tanto.
Il trattato si conserva nel codice Boncompagni D 10 come un ammasso informe, nel quale si distinguono a fatica due redazioni diverse (la prima nelle cc. 6r-39v, la seconda nelle cc. 56r-112r), vari spezzoni (cc. 116r 127v, 135r-138r, 141r-150r, 151r-157v) e brevi scritterelli autonomi destinati probabilmente a confluirvi (cc. 52r-54r,54v-55v). Il tutto appare fittamente cosparso di tagli e correzioni.
Come un moderno consulente, professionalmente disimpegnato rispetto ai valori e alle parti in causa, il C. aveva una vasta clientela che reclutava largamente fra i membri del Sacro Collegio e non solo fra quelli di orientamento filospagnolo, come il cardinale Ferdinando de’ Medici, (una lettera a lui indirizzata nell’Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato 5101, cc. 711-712). Dopo Giacomo Boncompagni, suo principale cliente e protettore fu infatti il cardinale Luigi d’Este, massimo esponente del partito francese in Curia (la loro corrispondenza ricca di 27 lettere del C. e 22 minute di risposta del cardinale in Archivio di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Ambasciatori a Roma, b. 79; ivi anche una lettera del C. al duca Alfonso). Rapporti più o meno stretti il C. intrattenne con altri cardinali, come Prospero Santacroce, Francesco Guastavillani, Vincenzo Gonzaga, Alessandro Farnese, Zaccaria Delfino, Girolamo Rusticucci.
Dopo che ebbe scontati i tre anni di condanna inflittigli dall’Inquisizione romana, in una forma assai larvata di detenzione nel convento di S. Maria del Popolo, il C. si mostrò sempre più insofferente di questa residenza coatta, finché ottenne dai suoi eminenti protettori di abbandonare il convento per un casino a Montecavallo, messogli generosamente a disposizione dal cardinale d’Este. Ritornò però in convento quando sentì approssimarsi l’ora della morte e vi morì il 9 sett. 1583. Del suo cospicuo patrimonio, accumulato in barba ai divieti della regola in tanti anni di consulenze idrauliche e politiche, si appropriò con poco dignitoso procedere il Boncompagni, che ottenne per lui dal padre la facoltà di testare.
La fortuna del C. come scrittore politico appare strettamente legata a quella del Tesoro politico, una raccolta di relazioni che ebbe ampia diffusione nell’Europa tra la fine del sec. XVI e l’inizio del successivo. Per quali vie i manoscritti delle sue opere politiche, che dopo la sua morte passarono in possesso del Boncompagni, raggiungessero la tipografia resta ancora un mistero. Tanto più fitto, in quanto dell’iniziativa editoriale che dette vita al Tesoro politico non si sa niente, neanche il nome dell’editore. Che il C. ancora in vita pensasse di dare alle stampe certi suoi scritti politici sembra piuttosto probabile: da una lettera di Aldo Manuzio al cardinale d’Este in data di Venezia 4 giugno 1580 (cfr. Archivio di Stato di Modena, Letterati, b. 34) si apprende che egli intratteneva rapporti con il famoso editore, con il quale aveva forse avviato trattative. Certo è solo comunque che nel 1589, data della prima edizione del Tesoro con falsa indicazione “Nell’Accademia italiana di Colonia”,furono pubblicate anonime la prima redazione del trattato, a mo’ di introduzione generale, con il titolo Delli fondamenti dello stato et instrumenti del regnare, la Relatione delli stati et governi di Fiandra e la Relatione et instruttione per lo Stato di Milano (sempre pagine non numerate). La prima redazione del trattato fu ripubblicata con un titolo diverso (Instruttione a‘ prencipi per sapere ben governare li stati)e il nome dell’autore nella Seconda parte del Thesoro politico, Milano, Comin Ventura, 1601 (pp. 337-364), insieme agli Avvertimenti a Marc‘Antonio Colonna quando andò viceré di Sicilia (pp. 450-483). Nella Terza parte del Tesoro politico, Turnoni 1605,furono pubblicati infine il Discorso del sig. don Scipion di Castro sopra l‘andata dell‘arciduca Mattia d‘Austria in Fiandra (pp.128-136) e il Discorso sopra l‘andata del duca d‘Alanzon in Fiandra (pp. 137-143). Questa terza parte dette l’occasione per inserire nell’Indice dei libri proibiti la raccolta in tutte le sue parti (cfr. H. Reusch, Der Index der verbotenen Bücher, II, Bonn 1885, p. 197). Ma la condanna della Chiesa di Roma troncò la fortuna italiana, non quella europea dell’opera: alle numerose edizioni italiane precedenti, seguirono le traduzioni latina (Praxis prudentiae politicae, Francofurti 1610 e Thesauri politici pars tertia, Coloniae 1611) e francese (Tresor politique, Paris 1611). Dei soli Fondamenti dette la traduzione spagnola Joachin Setanti nei suoi Frutos de historia, Barcelona 1610 (cc. 71v-97v). Amplissima fu la diffusione manoscritta dei singoli scritti e non sempre con diretta dipendenza dalle edizioni del Tesoro politico (cfr. i dati raccolti dal Giardina e le aggiunte che si desumono da P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad Indices). Essa registra tra l’altro traduzioni spagnole degli Avvertimenti, francese, inglese e spagnola dei Fondamenti. Le edizioni accolte nel Tesoro politico sono largamente scorrette e lacunose e rendono indispensabile il ricorso ai manoscritti. Scarse le edizioni moderne e non sempre irreprensibili: il Giardina pubblicò due scritterelli, Due scritti inediti di S. di C. sulla Svizzera e sulle imprese di Ginevra di Carlo Emanuele I., in Arch. stor. della Svizzera italiana, VII(1932), pp. 135-138, e più recentemente A. Saitta dall’autografa Boncompagni, ma con frequenti errori di trascrizione, gli Avvertimenti di Don S. di C. a Marco Antonio Colonna quando andò viceré di Sicilia, Roma 1950. Una nuova edizione degli Avvertimenti e di altri scritti ha curato R. Zapperi, Scipio di Castro, La politica come retorica, Roma 1978.
Le linee della fortuna del C. restano comunque ancora da tracciare. Per quel poco che se ne sa, sembra tuttavia che abbiano seguito il percorso ovvio e persino obbligato della traiettoria del machiavellismo in Europa. Lo lasciano supporre alcuni indizi significativi, come l’apprezzamento espresso nel titolo di una traduzione spagnola degli Avvertimenti che attribuisce la tragica fine del Colonna alla sua negligenza di essi o quello pure anonimo di una traduzione inglese dei Fondamenti (“This Castro is a very excellent man”). Senso diverso e forse più vicino all’effettiva posizione dello scrittore nei confronti del machiavellismo, ha forse l’annotazione del Boccalini (“Scipio da Castro tra i moderni politici chiamato l’antesignano”: cfr. Ragguagli di Parnaso, a cura di L. Firpo, II, Bari 1948, p. 270), se allude al proprio atteggiamento di ripulsa scettica e amara della dottrina della potenza.
Fonti e Bibl.: La monografia di C. Giardina, La vita e l’operapolitica di S. di C., Palermo 1931, si presenta assai sommaria e lacunosa nella documentazione e ancor meno attendibile sul piano critico. L’anno di nascita del C. si ricava con qualche approssimazione da un documento spagnolo (cfr. Archivo general de Simancas, Visitas de Italia, Sicilia, leg. 151, f. 5r: il 3 luglio 1559 il C. si dichiarò a Messina “de edad de treynta y ocho años poco más o menos tiempo”). Nei registri del generale degli agostiniani, G. Seripando, il C. compare una sola volta: “Fratres Cornelium Policastrensem et Cyrillum Pizleonensem, professos de congregatione Sancti Joannis, remisimus ad suam congregationem cum literis ad Venerabilem vicarium fratrem Florentium ut eos suscipiat et in conventu Sancti Joannis retineat, ut bonis literis vacare possint”. Da Bologna, 2 sett. 1544 (cfr. Roma, Archivio dell’Ordine degli eremitani di S. Agostino, Dd 21, f. 6r). Delle avventure svizzere del C. dette una prima sommaria notizia il Croce in una recensione del 1932 al libro del Giardina, che non ne aveya avuto il minimo sentore, ripubblicata successivamente (S. di C. a Ginevra) nel volume Aneddoti di varia letteratura, II, Bari 1953, pp. 44-46. L’episodio era tuttavia noto agli storici ginevrini, a partire almeno dal settecentesco J. A. Gautier, Histoire de Genève des origines à l‘année 1691, III, Genève 1898, pp. 620-625 (ma cfr. anche J. B. G. Galiffe, Quelques pages d‘histoire exacte…,Genève 1862, pp. 115-117; e A. Roget, Histoire du Peuple de Genève depuis la Réforme jusqu‘à l‘Escalade, IV, Genève 1877, pp. 295-297), che si basarono sul volume 49 del Registre des Conseils conservato in Archives d’Etat de Genève, dove tuttavia è disponibile una documentazione molto più ampia: cfr. Lettres du Conseil, vol. 4; Procès criminel, n. 541; Portefeuille historique, n. 1575 e Supplement, n. 166. Altre notizie in Ginevra, Bibliothèque publique et universitaire, ms. Cramer, 171: Histoire de Genève copiée d‘un vieux manuscrit, c. 103v; M. Roset, Les chroniques de Genève, a cura di H. Fazy, Genève 1894, pp. 379 s. Assai meno ricca la document. conservata a Berna, Staatsarchiv des Kantons, Unnützen Papiere, vol. 61, nn. 136, 137, 138; Deutsch–Missivenbuch CC, pp. 44, 53, 85-86, che va integrata con i regesti pubbl. in Die Eidgenössische Abschiede aus dem Zeitraum von 1549 bis 1555, a cura di K. Deschwanden, IV, 1, Luzern 1886, pp. 1295-1297, 1350 s. La corrispondenza di Ascanio Marso con il duca d’Alba si conserva nell’Arch. di Stato di Milano, Documenti diplomatici, cartelle 199, 201-204; Potenze estere, Svizzera, cart. 141. Quella del nunzio Della Rovere in Bibl. Apost. Vat., Barb. lat.,5716 e 9920. Per il periodo siciliano, oltre alle poche notizie racimolate dal Giardina sulla scorta delle ricerche di C. A. Garufi, Contributo alla storia dell‘Inquisizione in Sicilia nei secc. XVI e XVII, in Arch. stor. sicil.,n. s., XI, (1915), pp. 359-364; XLI (1916), pp. 433 s., cfr. Archivo general de Simancas, Visitas de Italia, Sicilia, leg. 151; Secretarias provinciales, Sicilia, legg. 980, 981; Madrid, Archivo historico nacional, Inquisicion de Sicilia, libro 875; P. Ragazzoni, Relazione del Regno di Sicilia, in Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 2, V, Firenze 1858, p. 476; V. Di Giovanni, Del Palermo restaurato, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, a cura di G. Di Marzo, s. 2, I, Palermo 1877, p. 347. Abbondanti notizie sul soggiorno romano si ricavano dai dispacci dei diplomatici estensi (cfr. Arch. di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Ambasciatori a Roma, b. 881, 891,901), bolognesi (cfr. Arch. di Stato di Bologna, Lettere dell‘ambasciatore ed altri agli assunti de‘ confini acque e fiumi, volumi 9-14), spagnoli (cfr. Archivo general de Simancas, Estado, legg. 932, 933, 935, 943). Da questi documenti spagnoli A. Saitta ha pubblicato un dispaccio dello Zuñiga, la sentenza del S. Offizio e la relativa abiura (cfr. L‘abiura di S. di C., in Critica storica, I[1962], pp. 421-427). Sulla questione del Reno cfr. le repliche di C. Betti (in Arch. di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Confini dello Stato, b.34), S. Belli (ibid.,b.9), F. Patrizi (in Arch. Segr. Vat., A.A., Arm.I-XVIII,4712), A. Romei (Roma, Bibl. Corsiniana, 34 F 6), e i giudizi di D. Guglielmini (1693), in Raccolta d‘autori ital. che trattano del moto dell‘acque, II, Bologna 1822, p. 127; e di E. Lombardini, Studi idrologici e stor. sopra il grande estuario adriatico i fiumi che vi confluiscono e principalmente gli ultimi tronchi del Po, in Mem. del R. Ist. lombardo di scienze e lettere, classe di scienze matematiche e naturali, XI (1870), pp. 77, 96. Per notizie sulla morte cfr. Bibl. Apost. Vat., Urb. lat. 1051, cc. 387r, 393ry, 394r; Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, b. 3603. cc. 625v, 627v; Archivio di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Ambasciatori a Roma, b. 931. Per il pensiero politico del C. cfr. G. Ferrari, Corso sugli scrittori polit. italiani, Milano 1862, pp. 438-443; H. G. Koenigsberger, Notes on the political thought of S. di C.,in The government of Sicily under Philip II of Spain, London 1951, pp. 201-205; Id., The Parliament of Sicily and the Spanish Empire, in Estates and Revolutions, New York 1971, pp. 80-93. Qualche altra notizia bibliografica in T. Bozza, Scrittori polit. italiani dal 1550al 1650, Roma 1949, pp. 71 s. Una riconsiderazione della figura del C. come impostore nel libro di R. Zapperi, Don S. di C. Storia di un impostore, Assisi-Roma 1977.